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Privati, Imprese - 1 Gennaio 2023

Moda, business da 500 miliardi

I dati dei primi sei mesi del 2022 hanno segnato per i maggiori player mondiali della moda un incremento del giro d’affari del 15%. In particolare, il mercato europeo ha spinto di più (+24%) insieme con quello americano (+19%, trainato dagli Stati Uniti), mentre l’Asia è stata penalizzata dalle restrizioni legate al Covid-19 (+3%). E nonostante l’attuale scenario macroeconomico, per l’intero 2022 le aspettative del settore restano positive: i primi dati indicano una crescita media del fatturato del 18% nei primi nove mesi.

Lo si legge nel nuovo report dell’Area Studi Mediobanca sul Sistema Moda Mondo che analizza i dati finanziari delle 78 maggiori multinazionali della moda con ricavi superiori a un miliardo di euro ciascuna, di cui 35 hanno sede in Europa, 29 in Nord America, 12 in Asia e due in Africa.

Le multinazionali della moda sono supportate da fondamentali solidi e stanno incrementando i propri listini (+6% in media previsto nel 2022) in risposta ai rialzi dei costi produttivi nonché alle pressioni valutarie. Innovazione e sostenibilità si confermano le principali leve per lo sviluppo del settore e il mercato asiatico resta di primaria importanza, con un’attenzione particolare alle generazioni più giovani e ai consumatori cinesi.

Nel 2021, le 78 maggiori multinazionali della moda hanno fatturato complessivamente 497 miliardi di euro (+26% sul 2020, superando dell’8,5% i livelli pre-pandemici), di cui il 57% generato dai player europei e il 33% dai nordamericani.

Fra i 35 gruppi europei, l’Italia con le sue nove big è il Paese più rappresentato a livello numerico, ma è la Francia, con una quota del 40% del fatturato aggregato, ad aggiudicarsi il primato per giro d’affari davanti a Germania (12%) e Regno Unito (11%), con l’Italia al 6%.

Al primo posto per ricavi tra i colossi mondiali si conferma LVMH (64,2 miliardi). Seguono Nike (41,2), la spagnola Inditex (27,7) che controlla Zara, la tedesca Adidas (21,2), l’italo-francese EssilorLuxottica (19,8), la svedese H&M (19,4) e il gruppo svizzero Richemont (€19,1).

Prima tra gli italiani Prada (3,4 miliardi), al 33° posto nella classifica mondiale, seguita da Calzedonia Holding (46.a), Moncler (52.a) e Giorgio Armani (54.a).

L’incremento dei ricavi nel 2021, rispetto ai livelli pre-pandemici, vede primeggiare la britannica Farfetch (+90,5%) davanti alla statunitense Crocs (+87,9%). Farftech, fondata nel 2007, è anche la società più giovane, seguita dalle connazionali Boohoo (2006) e Asos (2000) e dalla stessa Crocs (1999).

Anche la redditività supera i livelli pre-crisi: ebit margin aggregato al 15,8% dal 9,1% del 2020 e il 13,1% del 2019. Hermès si conferma al primo posto (ebit margin al 40,1%), davanti a Chanel (35,3%) e LVMH (31,7%). Seguono Crocs (29,6%), Kering (28,4%) e Moncler (28,3%), prima italiana in classifica.

In rialzo, ma ancora al di sotto dei livelli del 2019, gli investimenti, cresciuti del 20,6% sul 2020 ma ancora inferiori del 5,9% rispetto al 2019. Solo i gruppi asiatici hanno investito con intensità superiore (+22,7% sul 2019), mentre i player europei li hanno ridotti del 6% e quelli nordamericani arretrano tre volte tanto (-22,6%).

La distribuzione di dividendi resta allineata ai livelli pre-crisi, con l’eccezione dei player europei che hanno remunerato gli azionisti in misura lievemente maggiore (+3,3%).

Sul fronte patrimoniale, le multinazionali della moda si distinguono per una struttura finanziaria più solida rispetto alla media della grande manifattura (debiti finanziari sul capitale netto al 68,3% vs 88%), con i gruppi europei più capitalizzati di quelli statunitensi (59,7% vs 106,9%). La svizzera Swatch e la danese Bestseller sono le più solide (0,9% per entrambe).

Il 39% della forza lavoro delle 78 multinazionali della moda ha mediamente meno di 30 anni; la maggiore concentrazione di occupati giovani è nelle statunitensi (55%), le europee si fermano al 37% e le italiane si collocano sotto la media continentale (32%). Il ricorso al part-time è più intenso nei gruppi statunitensi (50%) rispetto a quelli europei (22%), con le società italiane che registrano il valore più basso (8%) insieme alle francesi (9%). I player europei utilizzano più contratti a tempo indeterminato (85%) rispetto agli statunitensi (79%).

Dall’analisi della varietà di genere nei board emerge che la presenza femminile cala all’aumentare del livello di responsabilità in azienda: la quota di donne sul totale della forza lavoro è mediamente pari al 64%, ma scende al 44% nei ruoli direttivi e al 33% a livello di cda. I gruppi statunitensi hanno più consiglieri donna (38%) rispetto a quelli europei (33%). Ampiamente sopra la media europea si collocano i player francesi i cui cda sono composti per la metà da donne; i gruppi tedeschi si fermano al 29% e quelli italiani al 28%. Le meno rappresentate sono le donne giapponesi: solo una ogni dieci consiglieri.

Le 78 multinazionali della moda hanno occupato quasi 2,2 milioni di persone nel 2021, in ridimensionamento dell’1,4% sul 2019. Relativamente alla supply chain, i fornitori dei maggiori player mondiali della moda sono localizzati per il 62% in Asia, per il 29% in Europa e per il 7% nelle Americhe, con punte di oltre il 90% in Asia per il fast fashion e le calzature sportive. Il ricorso a fornitori asiatici è più marcato per i gruppi nordamericani rispetto a quelli europei (76% vs 44%) che concentrano nel Vecchio Continente oltre la metà dei propri fornitori (52%), seguendo una strategia di prossimità e maggiore qualità.

Infine, un segnale inequivocabile dell’eccellenza del Made in Italy: mediamente oltre un quarto dei fornitori dei gruppi europei della moda ha sede in Italia, con picchi di oltre l’80% nella fascia alta del mercato.

Relativamente alla rete distributiva, nel 2021 sono lievemente aumentati i punti vendita a livello globale (+0,7% sul 2020) trainati dall’area asiatica (+4,2%), mentre sono in ridimensionamento quelli in Europa (-1,9%) e Nord America (-1,6%).

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