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- 8 Aprile 2021

Rifiuti: rigenerare e riutilizzare

Il miglior modo per gestire i rifiuti è evitare che diventino tali”. Lo sostiene il centro studi Ref Ricerche, che propone un approccio davvero circolare (cioè rigenerare o riutilizzare un prodotto ancora prima che finisca del tutto il suo ciclo di vita), considerando la possibilità di un salto di qualità e di un vero e proprio cambio di paradigma.

 

Un rifiuto viene buttato in un cassonetto (apposito, si spera), trasportato fino alla discarica, poi lavorato e riconvertito. “Tutti questi passaggi si possono evitare, anticipandoli” spiegano gli studiosi di Ref, che, esaminando la “gerarchia dei rifiuti” e le opzioni preferibili vi pongono al vertice il riuso e la preparazione al riutilizzo.

 

Un approccio che crea le migliori condizioni anche per incentivare l’innovazione (contribuendo a ridurre l’uso di materie prime vergini), allungare l’utilità economica dei prodotti e dei servizi; generare occupazione e riposizionare competenze e know-how verso produzioni alternative. Per non parlare, poi dei benefici ambientali ed economici del mercato della “seconda mano”.

 

La compravendita di oggetti usati nel 2019 è stata pari a 24 miliardi di euro, di cui 10,5 attraverso l’online. Cifra, quest’ultima, che non sorprende considerando il giro d’affari di colossi del commercio di seconda mano attivi online come eBay, che è quotato al Nasdaq; ma anche di social network come Facebook. Comunque, le circa tremila imprese operative stabilmente sul mercato italiano dell’usato per conto terzi fatturano circa 850 milioni di euro l’anno, mentre il segmento che impiega più persone è quello dell’ambulantato, il quale a volte è solo un hobby ma che intanto coinvolge circa 50mila micro-attività, con una stima di 80mila addetti.

 

Oltre alla rivendita però, c’è anche il “remanufactoring, ovvero la riparazione, la rigenerazione, il rinnovamento vero e proprio del ciclo di vita di un prodotto, che non viene più buttato o rivenduto così come è, ma magari deassemblato e ricomposto: in questo caso il valore aggiunto è il risparmio di materia prima, a vantaggio anche dell’investimento su una forza lavoro specializzata. Questa è forse la sfida più interessante, perché oltre al beneficio ambientale e alla possibilità di generare nuove transazioni commerciali (a prezzo inferiore per i consumatori), c’è la creazione di occupazione, considerando che il remanufacturing è una attività a elevato tasso di manodopera, che può permettere di recuperare parte della disoccupazione originata dalla delocalizzazione produttiva e dall’automazione.

 

Non a caso, secondo gli scenari ricostruiti dallo European Remanufacturing Network (Ern) – come ricorda il Centro studi Ref Ricerche, il remanufacturing alimenta un mercato che in Europa vale circa 30 miliardi e che potrebbe crescere fino a 100 miliardi entro il 2030, cifra già raggiunta negli Usa.

L’automotive e il settore della costruzione di macchine industriali rappresentano, ciascuno, circa il 30% del mercato del remanufacturing, il resto si ripartisce per un 27% agli apparecchi elettrici ed elettronici, per un 7% alla componentistica per automezzi pesanti e fuoristrada e un 3% sia all’aerospazio che alle forniture tecnologiche in genere.

Lo stesso Ern stima che la rigenerazione consente di risparmiare tra il 60 e l’80% del valore dei prodotti nuovi, soprattutto in termini di minori costi di materie prime, energia, trasporto e distribuzione. Insomma, un’opportunità davvero difficile da non cogliere. Gli autori dello studio sostengono che “le principali leve che potrebbero favorire la diffusione della prevenzione e del riutilizzo in Italia sono tre: il nuovo Piano d’Azione per l’Economia Circolare, promosso dalla Commissione Ue; il nuovo Programma Nazionale di Prevenzione dei Rifiuti, che il ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, dovrà redigere. Più la regolazione Arera nel settore dei rifiuti urbani”.

 

Comunque, in Italia, un primo passo avanti è già stato fatto: nell’ambito di Industria 4.0, nel maggio scorso, è stato deliberato dal Mise (ministero dello Sviluppo economico) il decreto attuativo del Piano Transizione 4.0, che destina un credito di imposta del 10% alle attività oggetto di innovazione tecnologica finalizzate al raggiungimento di obiettivi di transizione ecologica.

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