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Privati, Imprese - 11 Settembre 2023

La ritirata degli artigiani

Continua a diminuire il numero degli artigiani in Italia, che dal 2012 ne ha persi quasi 325 mila (-17,4%). Lo ha denunciato la Cgia, precisando che, secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’Inps, nel 2022 il nostro Paese contava 1.542.291 artigiani.

“Possiamo quindi affermare – ha scritto la Cgia – che non solo i giovani sono sempre meno interessati a lavorare in questo settore, ma anche chi ha esercitato la professione per tanti anni e non ha ancora raggiunto l’età anagrafica e/o maturato gli anni di contribuzione per beneficiare della pensione, spesso preferisce chiudere la partite Iva e continuare a rimanere nel mercato del lavoro come dipendente che, rispetto ad un artigiano, ha sicuramente meno preoccupazioni e più sicurezze”.

Girando per le nostre città e i paesi di provincia si constata che sono ormai in via di estinzione tantissime attività artigianali. Sono ormai ridotte al lumicino le botteghe che ospitano calzolai, corniciai, fabbri, falegnami, fotografi, lavasecco, orologiai, pellettieri, riparatori di elettrodomestici e tv, sarti, tappezzieri e non solo.

Attività, nella stragrande maggioranza dei casi a conduzione familiare, che hanno contraddistinto la storia di molti quartieri, piazze e vie delle nostre città, diventando dei punti di riferimento che davano una identità ai luoghi in cui operavano.

Per contro, invece, i settori artigiani che stanno vivendo una fase di espansione sono quelli del benessere e dell’informatica: per esempio, si continua a registrare un costante aumento degli acconciatori, degli estetisti e dei tatuatori, così come i sistemisti, gli addetti al web marketing, i video maker e gli esperti in social media.

“Purtroppo, però – commenta la Cgia – l’aumento di queste nuove attività è insufficiente a compensare il numero delle chiusure nell’artigianato storico, con il risultato che la platea degli artigiani è, appunto, in costante diminuzione”.

E con tante saracinesche abbassate, le città sono più insicure. Le città, infatti, non sono costituite solo da piazze, monumenti, palazzi e nastri d’asfalto, ma, anche, da luoghi dove le persone si incontrano anche per fare solo due chiacchere. Luoghi che conservano l’identità di una comunità e sono uno straordinario presidio in grado di rafforzare la coesione sociale di un territorio.

Insomma, con meno botteghe e negozi di vicinato, diminuiscono i luoghi di socializzazione a dimensione d’uomo e tutto si ingrigisce, rendendo meno vivibili e più insicure le zone urbane che subiscono queste chiusure, penalizzando soprattutto gli anziani, per molti dei quali fare la spesa è diventato un grosso problema non avendo botteghe sotto casa e, spesso, non disponendo dell’auto,

Il forte aumento dell’età media della popolazione, provocato in particolar modo da un insufficiente ricambio generazionale, la feroce concorrenza esercitata dalla grande distribuzione e in questi ultimi anni anche dal commercio elettronico, il boom del costo degli affitti e delle tasse nazionali/locali hanno spinto molti artigiani a gettare la spugna.

I consumatori, inoltre, hanno cambiato il modo di fare gli acquisti. Da qualche decennio hanno sposato la cultura dell’usa e getta, preferiscono il prodotto fatto in serie e consegnato a domicilio. La calzatura, il vestito o il mobile fatte su misura sono ormai un vecchio ricordo; il prodotto realizzato a mano è stato scalzato dall’acquisto scelto sul catalogo on line o preso dallo scaffale di un grande magazzino.

Inoltre, “negli ultimi 40 anni – ha sottolineato la Cgia – c’è stata una svalutazione culturale spaventosa del lavoro manuale. L’artigianato è stato “dipinto” come un mondo residuale, destinato al declino e per riguadagnare il ruolo che gli compete ha bisogno di robusti investimenti nell’orientamento scolastico e nell’alternanza tra la scuola e il lavoro, rimettendo al centro del progetto formativo gli istituti professionali. che in passato sono stati determinanti nel favorire lo sviluppo economico del Paese, mentre oggi sono percepiti dall’opinione pubblica come scuole di serie b”.

Per alcuni, infatti, gli istituti professionali rappresentano una soluzione per parcheggiare per qualche anno i ragazzi che non hanno una grande predisposizione allo studio; mentre per altri costituiscono l’ultima chance per consentire a quegli alunni che provengono da insuccessi scolastici, maturati nei licei o nelle scuole tecniche, di conseguire un diploma di scuola media superiore.

Comunque, nonostante la crisi e i problemi generali che attanagliano l’artigianato, non sono pochi gli imprenditori di questo settore che da tempo segnalano la difficoltà a trovare personale disposto a avvicinarsi a questo mondo. In tutto il Paese si fatica a reperire giovani disposti a fare gli autisti, gli autoriparatori, i sarti, i pasticceri, i fornai, i parrucchieri, le estetiste, gli idraulici, gli elettricisti, i manutentori delle caldaie, i tornitori, i fresatori, i verniciatori e i batti-lamiera. Senza contare che nel mondo dell’edilizia è sempre più difficile reperire carpentieri, posatori e lattonieri.

Nell’ultimo decennio sono state Vercelli e Teramo le province che, entrambe con il -27,2 per cento, hanno registrato la variazione negativa più elevata d’Italia (-27,2%). Seguono Lucca (-27%), Rovigo (-26,3%) e Massa-Carrara (-25,3%).

In termini assoluti, le province che hanno registrato le maggiori “perdite” di artigiani sono state Bergamo con -8.441, Brescia con -8.735, Verona con – 8.891, Roma con -8.988, Milano con -15.991 e, in particolar modo, Torino con -18.075 artigiani.

Per quanto riguarda le regioni, infine, le flessioni più marcate in termini percentuali hanno interessato il Piemonte con il -21,4%, le Marche con il -21,6 e l’Abruzzo con il -24,3. In valore assoluto, invece, le perdite di più significative hanno interessato l’Emilia-Romagna (-37.172), il Veneto (-37.507), il Piemonte (-38.150) e, soprattutto, la Lombardia (-60.412 unità).

 

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