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Reddito pro capite

Reddito pro capite

Milano resta saldamente in testa alla classifica italiana per valore aggiunto pro-capite da oltre vent’anni, raggiungendo nel 2022 quota 55.483 euro. Un valore tre volte e mezzo superiore a quello generato da Agrigento (15.665 euro), fanalino di coda e quasi doppio quello della media nazionale (29.703).

In Piemonte, in testa per valore aggiunto pro-capite l’anno scorso si è piazzata la provincia di Cuneo con 33.743,26 euro, cifra corrispondente al ventesimo posto nazionale. La Granda ha preceduto anche Torino (32.339,68 euro), al 26° posto tra le province italiane e il Novarese (31.053,36 euro), al 35°.

Ed ecco i piazzamenti delle altre piemontesi: Vercelli (29.858,51 euro) 38.a, Alessandria (28.673,86) 46.a, Biella (26.745,64 euro) 57.a, Asti (25.968,39 euro) 59.a, Verbania (23.948,45 euro), 72.a e perciò cenerentola regionale.

Tuttavia, complice l’incremento dei prezzi delle materie prime, è stata Potenza la provincia che ha corso di più nel 2022 rispetto al 2021, evidenziando un incremento del 16,4% del valore aggiunto contro il 6,9% medio nazionale a prezzi correnti.

A livello settoriale crescite a due cifre si rilevano in particolare in corrispondenza delle Costruzioni (10,4%), anche per effetto del superbonus 110%, e dei servizi (+10,6%), mentre l’industria in senso stretto cresce del 9,5%.

Guardando al pre-pandemia, solo a Firenze il valore aggiunto prodotto resta ancora sotto i livelli precedenti al Covid, segnando un calo del 4,7% nel 2022 rispetto al 2019, ma è in crescita dell’8,8% rispetto al 2021. Mentre, allungando l’orizzonte all’ultimo decennio, tra il 2012 e il 2022, a mostrare maggiore vigore sono soprattutto le province più “giovani”, più “industrializzate”, più strutturate e orientate all’export.

È quanto emerge dall’analisi realizzata dal Centro Studi Tagliacarne e Unioncamere sul valore aggiunto provinciale del 2022, che è una delle tradizionali attività di misurazione dell’economia dei territori realizzata dal sistema camerale.

L’articolazione geografica del valore aggiunto mette in risalto le differenze ancora esistenti in termini di valore aggiunto prodotto tra il Nord e il Sud del Paese.

La classifica del valore aggiunto pro-capite 2022 è capitanata, infatti, da ben tre province del Nord con Milano in testa (55.483 euro), seguita da Bolzano (49.177) e Bologna (41.737). E bisogna scorrere fino al 47° posto per trovare la prima provincia appartenente al Mezzogiorno. Mentre le ultime 32 posizioni sono tutte occupate da province meridionali.

Ma in soli quattro anni, tra il 2019 e il 2022, diverse province del Sud si sono distinte per avere fatto sensibili passi avanti. Tra le prime dieci province che mostrano avanzamenti più significativi Potenza è migliorata di 20 posizioni, Brindisi e Matera di 7. Ed è ancora Potenza a essere schizzata al primo posto per crescita del valore aggiunto prodotto tra il 2021 e il 2022 con un + 16,4%, seguita nella top cinque da Bolzano (+12,4%), Trento (+11,8%), Matera (+11,5%) e Valle d’Aosta/Vallée (10,9%).

A mettere il turno al Mezzogiorno sono state soprattutto le costruzioni, che qui hanno registrato una crescita del 12,3% nel 2022 sul 2021, a fronte di un incremento medio nazionale del 10,4% anche per effetto del superbonus 110%.

Lo sprint delle costruzioni nel Sud è confermato anche guardando agli ultimi quattro anni. Tra il 2019 e il 2022, infatti, è ancora il Mezzogiorno ad avere mostrato uno scatto in più nell’edilizia crescendo del 43,9% con ben 34 delle 38 province meridionali che hanno evidenziato performance superiori all’incremento settoriale medio del 35,6% nell’intera Penisola.

Comunque, la crescita del settore Servizi è tra i principali protagonisti del processo di recupero del 2022, con un incremento del 10,6% a cui ha contribuito in maniera determinante il ritorno dei flussi turistici pre-pandemici. Tanto è vero che aumenti maggiori del valore aggiunto si registrano proprio in quelle aree in cui il turismo rappresenta una risorsa importante per il complesso del territorio.

A dimostrarlo sono gli andamenti del Trentino-Alto Adige, al top della classifica regionale per crescita del valore aggiunto con +14,9%, seguito dalla Valle d’Aosta (+13,2%) e dal Veneto (+12,4%).

Tra il 2012 e il 2022 il valore aggiunto italiano è aumentato del 20,1%, ma alcune province hanno performato meglio di altre. Età media della popolazione, livello di industrializzazione, dimensioni delle imprese, vocazione all’export sembrano abbiano contribuito significativamente a fare la differenza sui territori.

Numeri alla mano, le province con un’età media della popolazione più bassa crescono del 20,7% contro il 18,9% di quelle “più anziane”, con picchi di incremento del valore aggiunto prodotto a Matera (+39,2%), Bolzano (+35,2%), Vicenza (+31,9%), Parma (+31,8%) e Treviso (+30,3%).

Più in generale, otto delle 10 province maggiormente cresciute fra 2012 e 2022 si collocano tra le province più giovani d’Italia.

Aumenti più elevati si registrano anche nelle province a maggior incidenza di valore aggiunto industriale (+22,6% contro +17,7%), con Potenza (37,1%) al top della classifica. Inoltre, le province con una maggiore presenza di imprese grandi e una più spiccata vocazione all’export sono cresciute in ambo i casi mediamente del 21,9% – contro poco più del +15% di quelle con una minore presenza di aziende più strutturate e una più bassa propensione a esportare- con punte a Bolzano (+35,2%), Vicenza (31,9%) e Parma (31,8%).

 

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Marchi europei e internazionali: perché tutelare l’IP all’estero

Marchi europei e internazionali: perché tutelare l’IP all’estero

In fase di registrazione di un marchio è bene chiarire con attenzione diversi elementi. In particolare, è necessario definire con estrema precisione quale sia l’espressione o il logo oggetto di registrazione, le categorie merceologiche (di prodotti o servizi) per la quali si chiede tutela e soprattutto gli Stati nei quali verrà effettuato il deposito. Non è un caso: quando un’impresa si affaccia sul mercato internazionale e inizia a esportare i propri prodotti o servizi in territorio diversi dall’Italia, deve necessariamente provvedere alla tutela dei suoi segni distintivi in tali mercati.

La territorialità del marchio

I diritti di proprietà intellettuale rispondono al cosiddetto principio di territorialità: il diritto di marchio e la sua tutela sono delimitati entro il territorio dello Stato in cui il marchio è stato registrato. Ciò significa che, in linea generale, negli Stati ove non si è effettuata una registrazione, chiunque può usare il marchio senza che ciò possa essere vietato.

È chiaro come una simile evenienza sia estremamente pericolosa per il titolare di un marchio, che si trova esposto al rischio di un utilizzo dei propri marchi oltre confine da soggetti terzi, senza avere alcun controllo. La strategia di internazionalizzazione è quindi essenziale per la tutela del proprio marchio oltre i confini nazionali.

Le tipologie di marchio registrato

A seconda dell’estensione territoriale, esistono diverse tipologie di marchi registrati:

1. Marchio nazionale

Registrato, per quanto riguarda l’Italia, presso l’UIBM (Ufficio Italiano Brevetti e Marchi) e con riferimento ad altri Paesi, presso i relativi uffici di proprietà intellettuale. Il marchio nazionale ha validità e riceve tutela per il solo territorio italiano nel quale è stato depositato e registrato. Il costo del deposito di un marchio nazionale è variabile a seconda del paese di interesse (Francia, Germania, ecc…).

2. Marchio europeo

Registrato presso l’EUIPO (European Union Intellectual Property Office) con validità e tutela nel territorio dell’Unione Europea. Il regolamento (UE) 2017/1001 è entrato in vigore il 1° ottobre 2017 e ha sostituito il regolamento comunitario n. 207/2009: esso consente di ottenere il deposito e la registrazione di un marchio unico che ha efficacia in tutto il territorio europeo, evitando la frammentazione tra Stati. Il vantaggio della registrazione di un marchio europeo è quindi straordinario, tenendo anche conto che il costo della sua registrazione è decisamente inferiore alla somma delle tasse delle singole registrazioni nei 28 Stati dell’Unione Europea. Il marchio europeo ha una durata di 10 anni dalla data di deposito ed è rinnovabile senza limiti temporali.

3. Marchio internazionale

Non esiste purtroppo un marchio “mondiale”, inteso come un titolo unico che conferisca protezione in tutti gli Stati del mondo: ciò è dovuto al fatto che molti di essi non hanno mai acconsentito ad una limitazione della propria sovranità per aderire ad accordi internazionali. Esiste però una procedura gestita dal WIPO (World Intellectual Property Organization, con sede a Ginevra) che consente, mediante un’unica domanda internazionale, di depositare un marchio in numerosissimi Paesi aderenti al cosiddetto sistema di Madrid. La presentazione della domanda di registrazione di marchio internazionale va effettuata presso l’ufficio nazionale del paese in cui è stato depositato o registrato il proprio marchio nazionale (Italia, o presso l’EUIPO se la prima domanda è relativa a un marchio europeo). Tali uffici provvederanno ad inoltrare la domanda al WIPO. In sede di domanda di marchio internazionale occorre designare gli Stati membri nei quali si intende ottenere la protezione e la registrazione del marchio internazionale. In poche parole, quindi, tramite la registrazione del marchio internazionale si possono ottenere singoli depositi nazionali per tanti Stati nel mondo quanti ne sono stati designati dal titolare del marchio, attraverso una procedura più semplice e meno costosa rispetto a depositi svincolati dal predetto procedimento.

Quanto costa registrare un marchio a livello internazionale? Dipende! Dipende da quanti sono gli Stati che il titolare del marchio intende designare per la registrazione: ogni Stato richiede la propria tassa di registrazione. Il rinnovo del marchio internazionale avviene mediante la medesima procedura semplificata che si segue per la registrazione e a costi sostanzialmente analoghi.

La strategia di internazionalizzazione

Ovviamente la scelta degli Stati presso i quali depositare e registrare il proprio marchio deve essere frutto di una strategia concordata con il proprio consulente marchi. È chiaro che non sempre può essere conveniente investire ingenti risorse in una registrazione internazionale quando non si è sicuri del successo di un prodotto o di un servizio sui mercati esteri.

Occorre trovare un giusto equilibrio tra gli investimenti e l’ampiezza di tutela. In questo senso, la normativa viene quindi incontro alle aziende che vogliono internazionalizzarsi con l’istituto della priorità: quest’ultima concede il diritto ad un soggetto di depositare il marchio in un singolo Stato (o come marchio europeo) con la possibilità di estensione, entro 6 mesi, ad altri Stati a scelta o addirittura di estensione come marchio internazionale, vantando anche per i nuovi depositi efficacia dalla data di deposito del primo marchio.

In questo modo viene concesso un termine di 6 mesi all’interessato per pianificare una strategia di estensione della propria registrazione ad altri paesi, beneficiando della retrodatazione dei successivi depositi. Non occorre quindi decidere tutto subito: poniamo che un’azienda italiana attiva nel settore della moda intenda lanciare sul mercato una nuova linea di abbigliamento. Essa potrà limitarsi a depositare il marchio in Italia attendendo sei mesi per l’estensione in altri paesi. La priorità di deposito consente di riservarsi un periodo di tempo per verificare il successo di un prodotto ed eventualmente estendere il deposito ad altri Stati.

Investire nell’internazionalizzazione

Ma è bene fare attenzione: solo un un consulente esperto è in grado di accompagnare un’azienda nell’internazionalizzazione del proprio brand attraverso un percorso graduale di espansione che tenga conto di un equilibrio tra esigenze di tutela internazionale e contenimento dei costi.

 

Articolo di: Gabriele Borasi

Pubblicazione effettuata in collaborazione con Jacobacci & Partners.

Per ogni informazione è possibile contattare: 

Simone Gallo
Trademark Attorney
sgallo@jacobacci.com

Valerio Verdecchia
European Patent Attorney
vverdecchia@jacobacci.com

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Crolla il consumo del pane

Crolla il consumo del pane

Mai così poco pane sulle tavole degli italiani. Il suo consumo medio è crollato al minimo storico di 80 grammi a testa al giorno, il 33% in meno in poco più di un decennio.

È quanto emerge da una analisi della Coldiretti, secondo la quale il calo degli acquisti di pane ha avuto una accelerazione negli ultimi anni: ancora nel 2010 il consumo quotidiano medio era di 120 grammi a testa, a fronte dei 180 grammi nel 2000, i 197 nel 1990 e i 230 nel 1980.

Valori, fra l’altro, molto lontani da quelli dell’Unità d’Italia, nel 1861, quando ogni persona mangiava mediamente ben 1,1 chili di pane al giorno.

Con il taglio dei consumi – sottolinea la Coldiretti – si è verificata una svolta anche nelle abitudini a tavola.

Sale l’interesse per il pane biologico e, con l’aumento dei disturbi dell’alimentazione, sono nati nuovi prodotti senza glutine e a base di cereali alternativi al frumento.

Sempre più apprezzate, infatti, sono le varianti salutistiche e ad alto valore nutrizionale: a lunga lievitazione, senza grassi, con poco sale, integrale, a km 0.  E ci sono anche 8,5 milioni di italiani che preparano il pane in casa, magari utilizzando farine di cereali antichi.

Il pane artigianale, che rappresenta l’84% del mercato (la spesa familiare in Italia per il solo pane ammonta a 6,7 miliardi all’anno) continua a essere preferito, anche se il suo consumo è in costante calo.

E il calo dei consumi mette in pericolo la sopravvivenza dei pani della tradizione popolare italiana, tra i quali ben sei sono stati addirittura riconosciuti dall’Unione Europea. Si tratta della Coppia ferrarese (Igp, Emilia Romagna), Pagnotta del Dittaino (Dop, Sicilia), Pane casareccio di Genzano (Igp, Lazio), Pane di Altamura (Dop Puglia), Pane di Matera (Igp, Basilicata) e Pane Toscano (Dop, Toscana).

Sono comunque centinaia le specialità tradizionali censite dalle diverse regioni.

Si va dal “Pane cafone” della Campania alla Biga servolana del Friuli-Venezia Giulia, formata da due pezzi di pasta uniti insieme in modo da formare un panino a forma di sferette unite; dal pane di Triora, il paese delle streghe in Liguria, che viene cotto per circa un’ora su delle tavole di legno cosparse di crusca, al pane di Chiaserna delle Marche, dal sapore leggermente acidulo.

In Lombardia, accanto alla classica michetta milanese, c’è pure il pane alla zucca di Cremona, impastato con una purea di zucca cotta al vapore; mentre dalla Val D’Aosta arriva il “Pan ner”, ottenuto da un mix di segale e frumento e dal Piemonte la “Lingua di Suocera”, nel cui nome è sin troppo evidente il riferimento alla lunghezza della lingua delle suocere.

Dall’Abruzzo viene il pane di grano Bolero, una varietà particolarmente resistente al freddo delle montagne e di alta quota è anche la Puccia pusterese del Trentino-Alto Adige, fatta con pasta madre arricchita da cumino, finocchio e trigonella.

Un simbolo della Sardegna, accanto al noto Carasau, è il pane Pintau, decorato con simboli ancestrali, che ne fanno una vera e propria opera d’arte. E affonda le sue radici nell’antichità anche il pane Rublanum della Calabria. Dal Veneto arriva il pane Bovolo, dalla particolare forma di chiocciola e dal Molise il pane di pregiato grano Senatore Cappelli.

L’aumento dei prezzi e una più diffusa sensibilità ambientale ha portato molti a cercare di ridurre gli sprechi, riutilizzando il pane avanzato per la creazione di ricette prese dalla tradizione contadina: dalla panzanella ai canederli, dal pancotto agli gnocchi di pane.

Pagnotte e panini restano però al terzo posto della classifica dei cibi più gettati nella spazzatura, nonostante che nel 2022 sia diminuita dal 21 al 16% la quota di famiglie che dichiarano di buttarlo.

 

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Finché la banca va

Finché la banca va

“Si riduce la propensione a investire, ma il mio e gli altri istituti continuano a sostenere le imprese”

Con il solito ottimismo che lo contraddistingue, Camillo Venesio, il nostro Amministratore Delegato e direttore Generale, intervistato da Nord Ovest Economia La Stampa – XIX Secolo, in merito alla situazione del Piemonte e della nostra città rassicura “Tornerà il sereno, ma perché questo avvenga l’economia piemontese dovrà rimboccarsi le maniche, non potrà semplicemente aspettare aiuti da fuori”.

 

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Le donne puntano sulla cultura

Le donne puntano sulla cultura

Più donne e giovani puntano sulla cultura per fare business, che in Italia cresce grazie soprattutto all’architettura e design (mentre l’editoria e la stampa perdono colpi).

Come mostra una recente analisi di Unioncamere e Centro studi Tagliacarne sul totale delle imprese culturali esistenti in Italia (oltre 275mila), una su quattro (il 24,5%) è una impresa femminile e una su 10 (10,2%) è guidata da giovani con meno di 35 anni di età.

In entrambi i casi il “peso” percentuale di donne e giovani è maggiore rispetto al totale delle aziende italiane, in cui le imprese femminili sono il 22,2% e quelle giovanili l’8,7%. Hanno invece un’incidenza minore, ma comunque non trascurabile, le imprese condotte da stranieri, che costituiscono il 5,6% del totale delle imprese culturali e creative (a fronte del 10,8% complessivo).

Buono il ritmo di crescita delle imprese culturali nel 2022: +1,85% rispetto al 2021. Buono soprattutto quello delle imprese giovanili: +2,84% con quasi 600 imprese in più. Cresce anche la partecipazione degli stranieri (+2,04%) mentre inferiore alla media è l’aumento delle imprese femminili (+1,19%).

Ma in quali ambiti sta crescendo l’industria culturale italiana?

Considerando il totale delle aziende del settore culturale censite a fine 2022, quelle di architettura e design e le attività di valorizzazione del patrimonio storico e artistico hanno consolidato la dinamica di crescita facendo registrare gli incrementi più significativi (rispettivamente +5,8% e +4,3% rispetto al 2021); aumentano anche i comparti videogiochi e software (+2,5%) e comunicazione (+2%).

Minore è la crescita delle performing arts e arti visive (+0,6%), mentre rimane stabile la numerosità delle imprese che operano nel sotto-settore dell’audiovisivo e musica. L’unico comparto ad aver perso smalto è quello dell’editoria che registra un -2,7% nel 2022 rispetto al 2021 (-7,6% rispetto al 2019).

Tra le imprese culturali, comunque, la parte da leone è giocata dall’architettura e dal design (87.836 integrando anche i liberi professionisti, il 31,9% del totale) e dall’editoria e stampa (62.786, il 22,8%). Anche il segmento della comunicazione racchiude un numero non trascurabile di imprese (42.611, il 15,5%).

Il comparto videogiochi e software, invece, conta circa 34mila imprese (il 12,4% del totale), poco più delle performing art e arti visive (circa 31 mila, l’11,2%). Seguono le 15.853 attività dell’audiovisivo e musica (il 5,8%) e, molto ben distanziate, le circa 1.200 imprese che si occupano della gestione del patrimonio storico-artistico, pari allo 0,4% delle imprese culturali italiane.

La maggior parte delle imprese culturali e creative ha sede del Nord-Ovest (il 31,5%) e nel Mezzogiorno (il 25,5%); meno numerose sono, invece, le imprese con sede nelle regioni del Centro (il 23,2%) e in quelle del Nord-Est (il 19,8%).

Di fatto, oltre un terzo delle imprese culturali e creative si trova all’interno della Lombardia (dove è localizzato il 21,3% delle imprese totali) e del Lazio (il 12,4% del totale). Questa concentrazione è chiaramente legata alla presenza di grandi agglomerati urbani come Milano e Roma, con le loro numerose attività legate ai servizi avanzati, al patrimonio storico e artistico, agli spettacoli culturali, al turismo.

Discorso analogo vale anche per regioni come il Veneto (che segue in terza posizione con l’8,4% delle imprese totali), la Campania (l’8,0%), l’Emilia-Romagna (il 7,6%) e il Piemonte (7,5%) che “sfruttano” il richiamo della cultura e dell’arte esercitato da città come Venezia, Napoli, Bologna e Torino.

È quindi vero che le grandi città fungono da attrattori per le imprese culturali e creative? 

All’interno dei comuni con più di 500mila abitanti si registrano 7,2 imprese culturali ogni 100 imprese registrate; tale incidenza risulta essere pari a 7,3 nei comuni con un numero di abitanti compreso tra i 250-499 mila e a 5,6 all’interno dei comuni con un numero di abitanti compresi tra 100-299 mila.

Ma quando le città di medie dimensioni diventano il centro delle produzioni del Made in Italy, la concentrazione di attività culturali e creative diventa consistente. L’incidenza delle attività culturali nelle città con un numero di abitanti compreso tra 20-60 mila abitanti è del 4,3%, nei comuni con un numero di abitanti compreso tra 60-100,000 è del 4,8%.

L’incidenza delle imprese culturali diminuisce gradualmente al ridursi della dimensione dei comuni e raggiunge un peso pari all’1,9% nel caso dei comuni con meno di mille abitanti (dove predominano le attività di architettura e design e quelle legate alla gestione del patrimonio storico artistico) e 2,7% nel caso dei comuni con un numero di abitanti compreso tra i mille e 5mila.

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