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Gestire l’eredità e dare valore al nostro tempo

Gestire l’eredità e dare valore al nostro tempo

Matusalemme visse 969 anni, noi possiamo ambire al massimo a 120 anni, ma comunque non siamo immortali.

Quando una persona viene a mancare, i suoi cari si trovano ad affrontare in maniera talvolta improvvisa il difficile compito di riprendere in mano le sue cose e di dover decifrare documenti incomprensibili accatastati in vecchi faldoni. Chi ci è passato sa quanto sia doloroso, perché fa riaffiorare i ricordi e genera malinconia.

Prendere in mano le redini della propria vita e scegliere per tempo cosa lasciare, a chi e come, è un atto di premura e di grande rispetto verso le persone a cui teniamo, perché evita loro inutili incombenze in un momento complicato e limita lunghe e costose discussioni tra eredi.

Pensare all’eredità? No, grazie.

Da un punto di vista psicologico, pensare a quel che accadrà dopo di noi risulta particolarmente difficile.

Il motivo è fortemente culturale, dato che in altri Paesi (come ad esempio la Svezia) la messa in ordine di quanto accumulato in vita per evitare incombenze a chi resta è una prassi diffusa.

Noi italiani siamo un popolo superstizioso e tendiamo a rimuovere il pensiero del non esserci, ed è spesso proprio questa rimozione ad impedirci di cogliere i benefici della pianificazione successoria.

Sono infatti ancora pochi gli italiani che scelgono di gestire per tempo il passaggio generazionale. Secondo i dati ufficiali, solo il 12% italiani fa testamento. Le conseguenze sono molte, basti pensare che sono ben 200.000 gli atti giudiziari legati a liti per questione di trasmissione del patrimonio (fonte: Milano Finanza 2023).

Questo significa che non abbiamo ancora compreso del tutto quanto sia importante tutelare i nostri cari, anche sul fronte della successione.

“Prendere in mano le redini della propria eredità e gestire per tempo il passaggio generazionale è un’opportunità per tutelare i nostri cari.”

Chi ha più diritti, e chi non ne ha?

Se una persona viene a mancare senza lasciare testamento, la successione è interamente regolata da norme di legge.

Gli eredi legittimi sono il coniuge, i figli, i genitori, i fratelli e le sorelle e i parenti sino al sesto grado di parentela. Se non vi sono parenti entro il sesto grado l’eredità viene devoluta di diritto allo Stato, che risponderà anche di eventuali debiti.

La legge privilegia le persone che hanno avuto un rapporto di parentela più stretto con il defunto, si segue cioè il cosiddetto principio di gradualità. Ad esempio, nel caso in cui ci sia solo un figlio e un coniuge, i beni verranno divisi a metà. Quando sono invece presenti più figli al coniuge spetterà un terzo del patrimonio, mentre ai figli i restanti due terzi divisi in parti uguali.

Se il defunto non era sposato, allora l’intero patrimonio verrà diviso in parti uguali tra i figli. I fratelli del defunto e gli ascendenti (ossia i genitori, i nonni e così via), potranno quindi diventare eredi soltanto se il defunto non aveva figli.

Ne deriva che non rientrano nella categoria degli eredi legittimi le persone che fanno parte di nuclei familiari nuovi, come ad esempio i conviventi, i «genitori sociali», i «figli sociali» e così via…

Il panorama familiare contemporaneo è però molto denso e variegato e questo ha grosse implicazioni se si sta ragionando di passaggio generazionale.

La quota disponibile: uno strumento importante

Oltre alla quota legittima (vincolata per legge e riservata ai parenti entro il 6°grado) si può disporre di una quota disponibile.

La quota disponibile, definita per legge, corrisponde a quella parte di patrimonio che può essere liberamente destinata a chiunque, indipendentemente dalla presenza o meno di eredi legittimi.

Attraverso l’utilizzo di strumenti coerenti, come assicurazioni vita o testamenti, la legge ci permette di «liberare una quota della successione legittima», variabile in relazione alla numerosità degli eredi legittimi esistenti, per proteggere persone alle quali si è legati, ma che non rientrano nella parentela riconosciuta dalla legge.

“La quota disponibile è quella parte di patrimonio che può essere liberamente destinata a chiunque, indipendentemente dalla presenza o meno di eredi legittimi”

Ragionare sul proprio passaggio generazionale insieme a professionisti del mercato, ci permette di “non lasciare che sia”. In mancanza di interventi specifici, si applica automaticamente la cosiddetta «successione legittima» stabilita dallo Stato.

Pertanto, restare ancorati a superstizioni, o semplicemente procrastinare la decisione, può risultare molto dannoso.

Le imposte di successione: tante o poche? Dipende…

Quando si entra in possesso di un’eredità occorre pagare un’imposta di successione. Questa imposta si applica al valore della quota o dei beni, eccedente una franchigia, definita in base al rapporto di parentela esistente. Anche qui, alla base della tutela c’è la famiglia formalizzata.

Se, ad esempio, l’erede è il coniuge, il figlio o il genitore, l’imposta si applica solo sulla quota che supera la franchigia di 1 milione di euro. Se invece ad entrare in possesso dell’eredità è un fratello o una sorella, la franchigia scende a 100.000 euro. Se infine l’eredità è destinata ad un soggetto portatore di handicap grave, allora la franchigia sale a 1.500.000 euro. Altri eredi, con grado di parentela più distante, non beneficiano di alcuna franchigia.

Oltre alla franchigia, occorre poi considerare l’aliquota. L’importo da pagare si ottiene infatti applicando alla base imponibile, ridotta dell’eventuale franchigia, un’aliquota che varia a seconda del rapporto di parentela esistente: si va dal 4% se gli eredi sono il coniuge, i figli o i genitori, all’ 8% se chi entra in possesso dell’eredità sono soggetti oltre il 4° grado di parentela.

         

Non tutti i beni che si ricevono in eredità sono sottoposti a imposta di successione. A titolo di esempio, sono tassati, il denaro, i gioielli, gli immobili, i beni mobili e i titoli al portatore, le partecipazioni in società, etc. Sono invece esenti da imposta di successione, il TFR, le polizze stipulate dal defunto, i crediti verso lo Stato, gli enti pubblici territoriali e gli enti pubblici che gestiscono forme obbligatorie di previdenza e di assistenza sociale, i titoli del debito pubblico, etc.

In sintesi, in Italia le imposte di successione sono particolarmente generose se rivolte a dei parenti stretti e molto meno se ad entrare in possesso di un bene è, ad esempio, un convivente. È essenziale farsi supportare nell’individuazione degli strumenti adatti a liberare la quota disponibile e a gestire al meglio la fiscalità.

E se si eredita un immobile?

La proprietà immobiliare costituisce la maggior parte della ricchezza delle famiglie italiane. Siamo un popolo di «proprietari di casa» e questa consuetudine fa sì che gran parte delle eredità comprendano case o appartamenti.

Qualora nel trasferimento di beni siano presenti degli immobili, sarà necessario tenere in considerazione due ulteriori imposte: l’imposta ipotecaria (corrispondente al 2% del valore catastale dell’immobile) e l’imposta catastale (pari all’1% del valore dell’immobile).

Se l’immobile ereditato rappresenta una «prima casa», sono previste delle agevolazioni. In questo caso le imposte sono dovute in misura minima e fissa, pari a 200 euro di imposta catastale e 200 euro di imposta ipotecaria.

Conclusioni

Anche se può risultare difficile, l’invito è quello di cominciare a ragionare sul proprio passaggio generazionale e domandarsi se sia più vantaggioso rinviare il ragionamento sulla trasmissione del proprio patrimonio o se invece sia meglio pianificare la propria successione già in vita, assicurandosi che parte dei propri beni vadano a favore delle persone a cui vogliamo bene, siano essi familiari o altri affetti. Solo così sapremo essere dei buoni antenati.

Conoscere i tassi del debito

Conoscere i tassi del debito

Comprare una casa senza avere disponibilità totale delle risorse, comprare un’auto a rate, distribuire l’acquisto di uno smartphone in tre comodi pagamenti o posticipare l’esborso economico di un viaggio anche dopo averlo fatto: queste soluzioni un tempo non sarebbero state possibili. Oggi grazie a diverse soluzioni di indebitamento possiamo fare molte di queste cose. Tutto questo però ha un costo, più o meno visibile, che si chiama tasso di interesse. Come si valuta e quali impatti ha una sua variazione?

Cosa è il tasso di interesse?

Il vero costo di un prestito o di un mutuo è determinato da un elemento: il tasso d’interesse.

Conoscerlo è essenziale per capire quanto costa, davvero, possedere o usare subito ciò che potremmo ottenere in futuro risparmiando.

Ad esempio, un mutuo da 100.000 euro a 10 anni con un tasso di interesse al 3%, richiede un esborso finale totale di circa 117.000 euro: il 17% in più.

I tassi sono espressi come percentuale del credito ottenuto e del deposito effettuato, con riferimento a un determinato periodo, normalmente un anno. Il tasso di interesse per il creditore, cioè chi presta il denaro, è il guadagno, mentre per il debitore, cioè chi chiede il denaro in prestito, rappresenta un costo.

Quando si contrae un mutuo è semplice capire che stiamo chiedendo in prestito del denaro, ma quando paghiamo a rate un elettrodomestico risulta un po’ più difficile e riteniamo che l’operazione non ci costi nulla, invece, va compreso e ponderato il costo dell’operazione.

Le decisioni delle Banche Centrali influenzano direttamente i tassi di interesse. Se le politiche monetarie favoriscono il credito, i prestiti diventano più accessibili. Tuttavia, in caso di inflazione elevata, i tassi generalmente vengono aumentati dalle Banche Centrali per stabilizzare l’economia.

“Conoscere il tasso di interesse è essenziale per capire quanto costa davvero ciò che potremmo ottenere in futuro, risparmiando.”

Quale tasso valutare quando si chiede un prestito?

Le offerte commerciali spesso propongono “tasso zero” o condizioni agevolate. In realtà, dietro a questi slogan si celano spese accessorie che possono rendere il costo effettivo più alto. In altri casi, il tasso iniziale è promozionale e aumenta dopo i primi mesi. Solo leggendo attentamente le condizioni contrattuali si può capire la vera entità del costo.

Tasso Annuo Nominale (TAN)

È il tasso d’interesse “puro”, espresso su base annua, che viene applicato al capitale prestato. Non tiene conto delle spese accessorie. È spesso il tasso messo in evidenza nelle pubblicità, perché è più basso del TAEG e quindi più “accattivante”.

Tasso annuo effettivo globale (TAEG)

Per il debitore è il costo totale di un’operazione di finanziamento che tiene conto non solo degli interessi sul prestito, ma anche di tutti gli oneri relativi al contratto di credito. Il TAEG è un indicatore sintetico di costo molto importante ai fini della trasparenza delle condizioni contrattuali applicate dagli istituti di credito, in quanto permette al debitore una facile comparazione tra i differenti servizi di finanziamento offerti. Questo è il tasso da cercare nella documentazione e quindi confrontare per capire il costo totale dell’operazione.

Infine, ogni regione ha un valore medio di tasso diverso che dipende dalla rischiosità della clientela e dai costi che ogni istituto attribuisce all’operazione.

Riconoscere il tasso effettivo dell’operazione (TAEG) di prestito (mutuo o finanziamento) è il primo passo per poter confrontare diverse alternative e scegliere in maniera avveduta.

Tasso usura: un limite di legge da conoscere

Il tasso usura è l’interesse oltre il limite legale. La legge fissa un tasso soglia, oltre il quale un prestito è considerato usurario. Questo limite si calcola sul tasso medio applicato dalle banche, rilevato trimestralmente dalla Banca d’Italia.

Un interesse superiore a tale soglia, aumentato di un quarto più un margine massimo del 4%, può configurare il reato di usura. Le vittime possono agire legalmente, ma devono dimostrare l’effettiva applicazione del tasso illecito. Per esempio al 31 marzo 2025, Banca d’Italia ha rilevato che il tasso fisso erogato mediamente dalle banche era pari a 3.39%. Quindi la soglia di usura è stata fissata pari a 8.2375%. Il tasso variabile erogato mediamente dalle banche è invece stato pari a 5.21% e quindi la relativa soglia di usura è stata fissata 10.5125% (Fonte: Banca d’Italia – tassi di interesse).

“Le vittime d’un tasso di usura possono agire legalmente, ma devono dimostrare l’effettiva applicazione del tasso illecito”

Conoscere il limite oltre cui un tasso diventa illegale non è solo una nozione tecnica: è uno strumento di autodifesa, un confine che separa il diritto dal sopruso e rende più consapevoli le nostre scelte finanziarie.

Tasso fisso o tasso variabile? L’eterno dilemma

Quando si accende un mutuo, una delle scelte più importanti da compiere riguarda il tipo di tasso di interesse che il mutuo avrà: fisso o variabile. Questa decisione ha un impatto diretto sulla rata mensile, sulla stabilità dei pagamenti e sul costo totale del finanziamento. Capire bene cosa cambia tra le due opzioni è fondamentale per fare una scelta consapevole.

Il tasso fisso garantisce che la rata del mutuo resti sempre uguale per tutta la durata del prestito. Non importa cosa accade ai mercati o alle politiche della Banca Centrale: la cifra da pagare ogni mese non cambia. È la scelta ideale per chi desidera sicurezza e non avere sorprese. Il rovescio della medaglia è che, di solito, il tasso fisso è più alto di quello variabile al momento della stipula.

Il tasso variabile, invece, segue l’andamento dei tassi di mercato (come l’Euribor). Questo significa che la rata può cambiare nel tempo: può scendere, rendendo il mutuo più economico, ma può anche salire, mettendo a rischio la sostenibilità dell’impegno. È una soluzione adatta a chi ha una buona capacità di spesa e vuole scommettere su un andamento stabile o calante dei tassi.

Facciamo un esempio concreto. Immaginiamo un mutuo da 150.000 euro da restituire in 20 anni con tasso fisso al 3,2%, la rata sarà di circa 849 euro al mese per tutta la durata. Il totale restituito sarà circa 203.760 euro.

Con tasso variabile all’1,9% iniziale, la rata iniziale sarà di circa 754 euro. Ma se nel tempo il tasso salisse fino al 4%, la rata potrebbe arrivare a 908 euro, aumentando l’esborso totale a oltre 217.000 euro. Come si vede, il tasso variabile può essere più conveniente all’inizio, ma porta con sé un rischio.

         

La scelta dipende dal profilo personale: chi preferisce la tranquillità, sceglie il fisso. Chi ha margini di bilancio più ampi e segue l’evoluzione dei mercati, potrebbe valutare il variabile. In ogni caso, è una decisione da prendere valutando in particolar modo le proprie possibilità future.

Da cosa dipendono i tassi del mutuo?

Il tasso di un mutuo dipende da diversi fattori, quelli principali sono:
–  mercato: i tassi BCE sono il riferimento principale;
–  durata: prestiti più lunghi implicano più rischio per la banca;
–  profilo del cliente: stabilità economica e storia creditizia influiscono sulle condizioni applicate;
–  finalità: i mutui per la casa hanno condizioni più favorevoli rispetto ai prestiti per consumi, grazie alla presenza di un’ipoteca sull’immobile;
–  spread: la percentuale di guadagno di chi concede il credito, da aggiungere al tasso

Ma quanto pesa sul conto familiare, la variazione di un punto percentuale? Un mutuo da 100.000 euro a 10 anni con tasso al 3% ha una rata di 977 euro. Con un tasso al 4%, la rata diventa 1.027 euro: oltre 6.000 euro in più da pagare durante tutta la vita del mutuo.

Comprendere quanto incide anche una piccola variazione di tasso è fondamentale per scegliere consapevolmente se è meglio optare per un mutuo a tasso fisso o a tasso variabile.

Conclusioni

Ogni prestito ha un costo, più o meno facilmente riconoscibile, che può incidere in modo significativo sul bilancio familiare.

Saper distinguere tra TAN e TAEG, conoscere il limite del tasso usura e valutare la differenza tra tasso fisso e variabile significa proteggersi da scelte sbagliate o troppo rischiose. Nessuna decisione finanziaria dovrebbe essere presa alla leggera, tanto meno quando si tratta di indebitarsi. Conoscere i tassi è il primo passo per scegliere, non subire e costruire un rapporto sano e sostenibile con il credito.

Il welfare pubblico ci aiuta, ma tocca anche a noi

Il welfare pubblico ci aiuta, ma tocca anche a noi

Grazie ai sistemi di welfare, gli Stati moderni si occupano del benessere dei cittadini. Il welfare italiano è diviso in due parti: assistenza e previdenza. L’assistenza protegge chi non ha i mezzi per vivere bene a causa di infortunio, malattia, invalidità o disoccupazione involontaria. La previdenza funziona diversamente: la pensione di ognuno di noi dipenderà da quanti contributi versiamo e verseremo. Se lavoriamo per tanto tempo o con redditi alti avremo pensioni sostanziose, diversamente accumuleremo pochi contributi previdenziali.

Lo stato ci aiuta, ma servono i requisiti

La pensione di inabilità e la pensione ai superstiti vengono in aiuto dei cittadini in caso di gravi evenienze, come un’improvvisa disabilità o il decesso prematuro; la pensione di vecchiaia (o anticipata), invece, ci supporta nell’affrontare la terza età. Queste pensioni non sono un diritto di tutti, servono infatti i requisiti. Per ottenere una pensione in Italia è necessario aver lavorato e versato contributi con regolarità per un determinato numero di anni.

Per ricevere l’assegno pensionistico di inabilità, ad esempio, occorre non essere più in grado di lavorare in maniera permanente ed aver versato contributi per almeno 5 anni di cui 3 negli ultimi 5. Per dar diritto ai familiari di ottenere la pensione ai superstiti, invece, il lavoratore deve aver contribuito per almeno 15 anni o per almeno 5 anni di cui 3 negli ultimi 5.

“Per ottenere una pensione in Italia è necessario aver lavorato e versato contributi con regolarità.”

Informarsi sulla propria posizione contributiva è un diritto, ma anche un dovere.

Diritti sì o diritti no?

Nell’idealità ciascuno dovrebbe poter scegliere a chi lasciare i propri soldi e i propri beni quando non ci sarà più. Nella realtà le cose non vanno così.

Per aver diritto alla pensione ai superstiti, ad esempio, occorre rientrare in precise categorie di seguito sintetizzate:
–  il coniuge o l’unito civilmente, sapendo che se il coniuge passa a nuove nozze perde il diritto
–  il coniuge separato
–  ​​il coniuge divorziato a condizione che sia titolare dell’assegno divorzile, che non sia passato a nuove nozze e che la data di inizio del rapporto assicurativo del defunto sia anteriore alla data della sentenza che ha pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio.
– I figli ed equiparati, tra questi:

i figli minorenni; i figli inabili al lavoro e a carico del genitore indipendentemente dall’età; i figli maggiorenni studenti, che non prestino attività lavorativa, che frequentano scuole o corsi di formazione professionale, nei limiti del 21° anno di età; i figli maggiorenni studenti, a carico del genitore al momento del decesso, che non prestino attività lavorativa, che frequentano l’università, non oltre il 26 anno di età.

In assenza del coniuge e dei figli i beneficiari potranno essere destinatari i genitori che abbiano compiuto il 65° anno di età, non titolari di pensione diretta o indiretta e a carico del lavoratore deceduto. In assenza del coniuge, dei figli o del genitore, allora avranno diritto alla pensione i fratelli celibi e sorelle nubili inabili al lavoro, non titolari di pensione diretta o indiretta, a carico del lavoratore deceduto.

​​Il welfare pubblico italiano tutela principalmente le famiglie formalizzate. Se conviviamo o non facciamo parte di famiglie formalizzate sarà necessario alzare il livello della nostra protezione.

Pensione pubblica di inabilità: quanto e come

I nostri contributi nei fatti vengono usati per pagare i pensionati di oggi ma nella contabilità creeranno un capitale finale, che si chiama montante contributivo.

Nella pensione di inabilità se l’età di invalidità è minore di 60 anni, il montante contributivo si ottiene sommando il maturato contributivo e una somma di contributi figurativi contabilizzati dall’assistenza fino ai 60 anni. Il montante contributivo viene poi moltiplicato per un coefficiente basato sulla speranza di vita a 60 anni di età se l’invalidità permanente accade a 60 anni o prima. Se invece avviene dopo i 60 anni allora non ci sarà componente assistenziale ed il calcolo deriverà dalla conversione dei propri contributi versati e capitalizzati con un coefficiente che stima la speranza di vita a quell’età.

I calcoli per stimare la pensione di inabilità non sono complicati e si possono effettuare utilizzando le informazioni presenti nel nostro estratto contributivo INPS e utilizzando i coefficienti di trasformazione presenti sul sito dell’Istituto.

“Il consiglio è però quello di farsi supportare da professionisti che ci possono aiutare a leggere ed interpretare meglio queste informazioni.”

Pensione di inabilità: alcune stime utili

Ogni situazione è differente, e le pensioni di inabilità possono variare enormemente in base alle caratteristiche di ciascuno di noi. Per poterci fare un’idea dell’apporto della previdenza pubblica, ci possiamo però far aiutare da alcune stime.

Considerando una persona con un reddito attuale di 30.000 euro, le tabelle ci indicano i tassi di sostituzione, ossia il rapporto tra pensione di inabilità e il reddito da lavoro.

         

Come mostrano le percentuali indicate, nel caso simulato, la pensione pubblica è sicuramente un supporto importante ma non sufficiente a recuperare interamente i redditi che verrebbero a mancare in caso di un’improvvisa invalidità permanente, ai quali andrebbero sommate le spese sanitarie e di assistenza.

Pensione pubblica ai superstiti: quanto e come

La pensione destinata ai superstiti di un lavoratore prevede un calcolo simile a quello per la pensione di inabilità. In questo caso non esiste però una componente contributiva assistenziale: l’intera pensione è finanziata tramite i propri contributi.

In pratica, i contributi versati sino al momento dell’evento rimangono tali e quel che si è maturato viene moltiplicato per il coefficiente relativo alla propria età o, se l’età al decesso è inferiore ai 57 anni, per il coefficiente relativo a quella età. Per questo, gli importi risultano decisamente inferiori rispetto a quelli delle pensioni di inabilità. Il calcolo risente inoltre della cosiddetta “prova dei mezzi”, una valutazione della situazione economica di un individuo o di un nucleo familiare, utilizzata per determinare l’accesso a determinate prestazioni o benefici sociali. In pratica, serve a stabilire se una persona ha diritto a ricevere un aiuto economico o un servizio, basandosi sul suo reddito e sul suo patrimonio.

La pensione superstiti viene quindi ridotta se i destinatari hanno una situazione reddituale giudicata sufficiente, ossia non meritevole di totale assistenza pubblica.

Pensione ai superstiti: alcune stime utili

Per poter capire meglio quanta pensione pubblica ai superstiti potremmo aspettarci, osserviamo alcune stime relative alla pensione indiretta di un lavoratore sposato, con un figlio, e un reddito attuale di 30.000 euro.

In funzione del tipo di famiglia (1 coniuge e 1 figlio) la prestazione sarà immediatamente ridotta del 20% (se la famiglia fosse invece composta da 1 coniuge e 2 figli non sarebbero previste riduzioni). Le stime ipotizzano poi che il reddito del coniuge sia pari a 30.000 euro: questo (per la prova dei mezzi) darà luogo ad una ulteriore riduzione della prestazione del 25%.

L’esito è quello mostrato nelle tabelle che anche in questo caso indicano il tasso di sostituzione, ossia il rapporto tra pensione indiretta garantita ai superstiti e reddito attuale del soggetto che viene a mancare.

Anche in questo caso ogni situazione è differente, e le pensioni superstiti variano in base alla contribuzione individuale. Le stime, ci mostrano però chiaramente quanto sia importante affrontare per tempo il tema della propria protezione e del benessere delle persone a cui vogliamo bene.

Che fare?

Ecco allora alcuni semplici consigli per agire e non subire grossi rischi come quelli affrontati in questo contributo.
–  Il primo consiglio è quello di simulare la propria capacità di far fronte a una situazione grave ed inaspettata
–  Verifichiamo poi se abbiamo diritto o meno ad una prestazione assistenziale pubblica
–  Attiviamo un percorso di pianificazione che, confrontando obiettivi e risorse, ci aiuti a verificare il nostro grado di stabilità e, se insufficiente, ad aumentarlo

Conclusioni

Le prestazioni offerte dal Welfare statale sono importanti ed eque, ma potrebbero non bastare o potremmo non averne diritto. Per questo andrebbero integrate con strumenti assicurativi adeguati e capaci di metterci al sicuro di fronte ai grandi rischi della vita.

Gli strumenti di sicurezza: breve guida

Gli strumenti di sicurezza: breve guida

Le assicurazioni non saranno desiderabili ma sono utili. L’assicurazione è un prodotto economico strano, perché le uscite sono certe (si paga) ma le entrate no (veniamo pagati solo se succede qualcosa che non vorremmo accadesse). Inoltre, le pubblicità sulle assicurazioni parlano sempre di catastrofi, e la vita è già così complicata che confrontarci con i guai è l’ultima cosa che ci piace fare. Eppure, un mondo senza assicurazioni sarebbe orribilmente insicuro e vulnerabile. Per questo, vale la pena di fare un piccolo viaggio negli strumenti che ci rendono più sicuri.

Polizze o assicurazioni

Quando si pensa alle assicurazioni, la prima cosa che ci viene in mente è una polizza. Nella realtà, la polizza è un contratto, e confondere i contratti con i loro oggetti non è una buona cosa. La nostra casa non è il mutuo che abbiamo stipulato, e la nostra macchina non è il contratto di finanziamento che ci consente di comprarla. Così, la sicurezza non è una polizza ma un obiettivo umano, da sempre e per sempre: quello di essere sereni perché ci si è protetti. A questo serve assicurarsi.

“La sicurezza non è una polizza ma un obiettivo umano, da sempre e per sempre: quello di essere sereni perché ci si è protetti.”

Briciole di storia

Le assicurazioni sono relativamente moderne. La prima Compagnia Assicuratrice della quale si ha notizia nacque a Londra, pochi anni dopo il grande incendio del 2 settembre 1666, che distrusse una città appena decimata dalla peste. Le Compagnie applicarono, per prime, quel concetto di mutualità che secondo molti studiosi ha creato la società moderna e consentito giganteschi passi avanti all’umanità. Se, infatti, prima della mutualità ognuno in caso di incendi, morte o malattie doveva cavarsela da solo e per i meno ricchi questo era impossibile, con la mutualità assicurativa tanti si privano di poco per aiutare quei pochi che, in seguito a un evento negativo, non sarebbero in grado di fronteggiarlo.

In Italia le prime assicurazioni nascono all’inizio dell’800 e si impegnarono direttamente nel finanziamento delle guerre di indipendenza e nella creazione dell’Unità d’Italia. Il 4 aprile 1912 la legge Giolitti-Nitti nazionalizzò il mercato assicurativo vita, che sino a quel momento stava destinando gran parte dei risparmi verso assicurazioni che facevano allora capo all’Impero Asburgico, ossia all’imminente nemico della Prima guerra mondiale. Nel secondo dopoguerra proseguì la tutela pubblica delle assicurazioni, che stabilì un trattamento fiscale privilegiato per chi si assicurava. Questo incentivo pubblico verrà rinforzato nel 2000, istituendo una fiscalità molto agevolata per chi si dota di una propria previdenza complementare.

In sintesi, l’assicurazione è uno strumento privato con finalità pubbliche, destinato al bene comune. La definizione più sintetica del loro senso è stata data dal Prof. Antonio La Torre: “privarsi di poco per non doversi mai privar di molto”.

A cosa serve assicurarsi

Oggi difficilmente intere città si incendiano, e la peste si può considerare debellata. I rischi che riguardano la nostra vita sono diversi ma crescono con la crescente complessità delle nostre vite e del mondo che ci circonda. Quel che noi dovremmo tenere sotto controllo sono 5 categorie di rischi:

– La probabilità di vivere troppo poco o troppo a lungo (assicurazioni sulla vita)
– La necessità di doverci curare, presto e bene (assicurazioni sanitarie)
– Subire danni patrimoniali per rischi che riguardano i nostri beni (assicurazioni furto e incendio casa ed automobile, tutela contro calamità atmosferiche, sottrazione identità digitale, vandalismi ecc)
– Dover rispondere di un danno involontario causato da noi per la conduzione di un immobile o durante la vita privata (assicurazioni di responsabilità civile)

La legge ci obbliga ad assicurarci quando un nostro comportamento può generare un danno ad altri che potremmo non essere in grado di risarcire; è questo il caso della responsabilità civile autoveicoli, che tutti dovremmo acquistare volentieri, dato che ci libera da un peso enorme. Non si può né deve tuttavia obbligare le persone ad assicurarsi per ogni cosa, e la stessa Costituzione, nell’articolo 38, specifica che l’assistenza privata è libera.

Buona parte delle tutele dai rischi della nostra vita quotidiana spetta a noi. Perché, allora, ne usufruiamo troppo poco?

  1. i tassi di interesse aumentano. Chi ha un mutuo a tasso variabile, deve monitorare continuamente la variazione di rata e la relativa sostenibilità. Chi invece ha un mutuo a tasso fisso, dovrebbe attendere condizioni migliori.
  2. I tassi di interesse si riducono. La surroga andrebbe valutata nella sua convenienza sia per chi ha un mutuo a tasso fisso sia per chi ha un mutuo a tasso variabile. La convenienza dipende dalle nuove situazioni di mercato e dalla durata rimanente di rimborso.
  3. L’inflazione aumenta. Quando l’inflazione aumenta, si produce un beneficio indiretto per i debitori, che pagando rate nominali (ad esempio 500 euro al mese per 20 anni), beneficiano di una riduzione del valore reale dell’impegno finanziario. Questo perché in termini reali, il valore sborsato è minore. Tuttavia, in caso di inflazione crescente, aumentano le probabilità di un aumento dei tassi di interesse ufficiali, al fine di rallentare l’economia, e quindi ricadiamo al punto 1).

“I rischi che riguardano la nostra vita sono diversi ma crescono con la crescente complessità delle nostre vite e del mondo che ci circonda.”

Come funzionano

Come spesso accade, si ha diffidenza per quel che non si conosce. È dunque bene sapere che il settore assicurativo è sottoposto a un sistema di tutele rigorosissimo, a partire dalla formazione del prezzo, che in assicurazione viene chiamato premio. Le Compagnie Assicurative devono infatti partire da statistiche, pubbliche e dimostrabili, e sulla base del loro esborso atteso definiscono i costi dei prodotti, considerando anche possibili rischi in eccesso rispetto a quelli stimati, per garantire l’equilibrio dei bilanci. Al costo “puro” vanno aggiunti il lavoro delle risorse umane di sede (matematici, amministrativi, informatici, gestori, legali e tutte le altre figure che lavorano in una Compagnia) e dei distributori (Banche, reti agenziali, consulenti e tutti coloro che dedicano ore di lavoro a interagire con i clienti, effettivi o solo potenziali). Ogni fase della formazione del prezzo deve essere resa trasparente alle Istituzioni di controllo, così come i costi devono essere resi evidenti agli acquirenti. In sintesi, nella formazione del premio nulla è casuale, e tutto deve essere motivato e monitorato. Se i rischi coperti sono anche futuri, le normative impongono riserve (immobilizzazioni) di capitali che devono ammortizzare eventuali differenze tra le ipotesi di oggi e le prestazioni che dovranno essere garantite e pagate in futuro.

“Il settore assicurativo è sottoposto a un sistema di tutele rigorosissimo, a partire dalla formazione del prezzo, che in assicurazione viene chiamato premio.”

Calcoli e controlli rigorosi, ingenti capitali, molte professionalità, forti riserve e capitali immobilizzati. Anche per questo, le Compagnie assicuratrici non sono molte. È il costo di svolgere una funzione di utilità ed interesse pubblico.

Come usarle

Le assicurazioni sono più semplici delle polizze, e si basano su alcune logiche di fondo. Per i consumatori, è bene distinguere tra:

–  Assicurazioni forfetarie o indennitarie. Le prime stabiliscono la cifra che verrà garantita per contratto, le seconde risarciranno i danni effettivamente subiti, non quantificabili prima che accadano.
–  Assicurazioni di rendita o di capitale. Le prime servono per la pensione, perché garantiscono un flusso di denaro per tutta la vita, le seconde servono per far fronte a rischi che richiedono disponibilità immediate ed “una tantum” di denaro.
–  Assicurazioni a forte contenuto demografico o basate su investimenti e denominate IBIPs (Investment Based Insurance Products, ossia prodotti assicurativi basati su investimenti). Le prime servono per far fronte a rischi che non sapremmo sopportare, le seconde a investire nei mercati finanziari ed hanno, rispetto agli investimenti veri e propri, un vantaggio di tipo fiscale.
–  Assicurazioni a premio unico o a premio periodico. Nelle prima si paga una sola volta e si è tutelati per la durata contrattuale, le seconde richiedono versamenti periodici. Qui, la scelta è più legata alla comodità di pagare tutto e subito o un poco alla volta, ma la forma di tutela non cambia.
–  Assicurazioni monoannuali o pluriennali. Le prime ci assicurano per un solo anno, e vanno rinnovate di continuo, con il rischio che i prezzi oscillino. Le seconde hanno una durata lunga, e servono a tutelarci per rischi che si protraggono nel tempo (premorienza, invalidità, spese sanitarie, integrazioni pensionistiche).

È sempre utile, inoltre, chiedere al proprio consulente cosa è incluso e cosa escluso nelle garanzie previste dal contratto, e se ci sono scoperti o franchigie, ossia piccole parti di rischio che l’assicurazione non risarcisce perché possono essere serenamente gestite dagli assicurati e quindi non richiedono il servizio assicurativo. Se ci sono franchigie o scoperti, le assicurazioni costano meno.

Conclusioni

Le assicurazioni sono, da sempre, al centro delle riflessioni filosofiche, politiche, economiche perché svolgono una funzione sociale insostituibile. Dovremmo, quindi, usarle di più ma usarle anche meglio, evitando di farle durare troppo poco, di assicurare importi bassi e di spendere il giusto per ciò che ci serve.

La nostra previdenza pubblica: per chi, quando, quanto

La nostra previdenza pubblica: per chi, quando, quanto

La pensione è un pensiero strano, che da un lato ci attrae e dall’altro ci spaventa. Il timore, generale, è quello di dover fare attenzione alle piccole e grandi spese, perché i soldi non saranno sufficienti.

In questo quadro, dovremmo almeno fare i conti con le nostre pensioni pubbliche, ma anche questo ci è difficile, perché ci è stato spiegato che le logiche sono complicate, i conti non tornano e così via.

In realtà, i conti tornano ma è altrettanto vero che le pensioni pubbliche sono poco adeguate alla qualità della vita che vorremmo. La previdenza funziona in maniera semplice e la pensione di ognuno di noi dipenderà da quanti contributi versiamo e verseremo. Se lavoriamo per tanto tempo o con redditi alti avremo pensioni sostanziose, diversamente accumuleremo pochi contributi previdenziali.

Il problema è che, seppur versiamo “tanto”, la durata dei versamenti è di poco inferiore al tempo di vita, lunghissimo, che passeremo in pensione. In teoria, dovremmo versare ancor di più ma questo abbasserebbe redditi già poco eclatanti e quindi?

Ministoria

La pensione è un concetto abbastanza recente, della fine del XIX secolo. Nasce a capitalizzazione: ognuno versa per sé e per il suo futuro. Le riserve future dei pensionati vennero tuttavia distrutte dall’inflazione della seconda guerra mondiale e 1000 lire, in nove anni, si ridussero, in termini di potere d’acquisto, a 22. In un Paese che esce malconcio dalla guerra, ma che è pieno di giovani e povero di pensionati, è naturale pensare che si possa risolvere il problema passando da “ognuno versa per sé” a un patto generazionale nel quale tanti giovani versano soldi per pochi anziani.

Ora le cose sono cambiate, abbiamo pochi giovani e molti anziani e non c’è riserva ma ripartizione. I soldi di chi lavora pagano, quasi “in diretta” le pensioni. I calcoli, tuttavia, rimangono “personali” (anche se come abbiamo visto la cassa non c’è). Di conseguenza, ciascuno avrà indietro una pensione corretta rispetto a quanto ha versato ma… la avremo davvero tutti? E quando? E come capire se sarà sufficiente?

“Siamo passati da ‘ognuno versa per sé’ a un patto generazionale nel quale tanti giovani versano soldi per pochi anziani”

Per chi, perchè

Il fatto che ognuno avrà una pensione che deriva dai versamenti ci dice che la pensione è un beneficio per chi ha lavorato e non per tutti. Chi non ha lavorato, o non a sufficienza, non ha pertanto diritto alla pensione ma solo, in caso di necessità, ad assegni di inclusione o redditi assistenziali.

La buona notizia, tuttavia, è che ogni lavoro prevede il versamento di contributi, e quindi ciascun lavoratore matura contributi previdenziali. La gran parte di questi contributi confluisce in INPS ma ci sono diverse casse professionali, relative a categorie diverse dal lavoro dipendente, artigianale o commerciante. Ogni categoria che si è dotata di una propria cassa previdenziale ha regole proprie, ma oramai tendenzialmente tutti i sistemi stanno confluendo verso modelli simili: ciascuno versa contributi, ed al termine del lavoro questi si trasformeranno in pensioni in maniera equa.

Di seguito faremo riferimento al mondo INPS. La possibilità di andare in pensione di solito è legata all’età, ma anche al numero di anni di versamenti. Tipicamente, ciascuno esamina la propria situazione per capire se si può andare in pensione di vecchiaia o in pensione anticipata. La pensione di vecchiaia si raggiunge ad una data età purché si sia versato per un certo numero di anni. La pensione anticipata, diversamente, non considera le età ma solo i versamenti, ancora differenziati per genere.

Questo è il criterio generale, che tuttavia varia in funzione dell’inizio del lavoro. La data che distingue i requisiti è il 1 gennaio 1996. Chi già lavorava avrà alcune possibilità, chi ha iniziato a lavorare dopo quella data ha un sistema un po’ diverso.

Requisiti per meno giovani

Chi ha iniziato a lavorare (più precisamente, a versare) prima della fine del 1995 può andare in pensione di vecchiaia a 67 anni con 20 anni di contribuzione o in pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi se uomo e 41 anni e 10 mesi se donna.

Entrambi i requisiti sono mobili, nel senso che vengono aggiornati ogni due anni in funzione dell’allungamento della speranza di vita. In pratica, se la vita media si allunga di 3 mesi, l’età della pensione si sposterà in avanti di 3 mesi e così via. Se il numero di anni di versamenti non è sufficiente per conseguire il diritto, ci sono due possibilità: riscattare gli anni di laurea se la si è conseguita o proseguire i versamenti anche dopo la fine del lavoro, in maniera volontaria.

Requisiti per più giovani

Chi ha iniziato a lavorare (più precisamente, a versare) dopo la fine del 1995 può andare in pensione di vecchiaia a 67 anni con 20 anni di contribuzione o in pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi di contribuzione se uomo e 41 anni e 10 mesi di contribuzione se donna. C’è però una ulteriore possibilità, che consiste nell’andare in pensione a 64 anni a condizione che si sia versato per almeno 25 anni e il calcolo della pensione sia almeno pari a 3 volte l’assegno sociale, ossia a 1.616 euro al mese.

Per agevolare questa possibilità, il calcolo della pensione comprende anche le pensioni complementari, quelle che potremmo avere se sottoscriviamo un fondo pensione. Anche in questo caso i requisiti sono mobili, nel senso che vengono aggiornati ogni due anni in funzione dell’allungamento della speranza di vita, ed anche qui se il numero di anni di versamenti non è sufficiente si può riscattare la laurea o proseguire i versamenti. C’è tuttavia una terza possibilità, ed è quella di maturare un importo complessivo tra previdenza pubblica e complementare che consenta di smettere di lavorare prima.

Se non si raggiungono i requisiti pensionistici “standard” bisogna aspettare 71 anni. In quel caso gli anni di contribuzione necessari sono solamente 5.

Le uscite di sicurezza

È strano dirlo, ma in Italia oltre ai sistemi di regole ci sono, spesso, possibilità temporanee di anticipare le età della pensione. Le più note sono Opzione Donna e Quota 103. Queste possibilità consentono di andare in pensione prima del dovuto, ma non in maniera “gratuita”. Ogni possibilità di andare in pensione “prima del dovuto” prevede, infatti, penalizzazioni negli importi o sistemi di calcolo che, a conti fatti, risultano poco convenienti, a meno che l’anticipo non sia così essenziale o necessario da pagarne un prezzo. Ognuno, naturalmente, deve valutare soggettivamente il costo di rimanere al lavoro o disporre di maggiore tempo per sé e le proprie passioni. Prima di fare scelte, tuttavia, sarebbe bene simulare con precisione la diminuzione dell’assegno pensionistico.

“Ognuno, naturalmente, deve valutare soggettivamente il costo di rimanere al lavoro o disporre di maggiore tempo per sé e le proprie passioni”

Qualche calcolo

Inutile negarlo: siamo generalmente affaticati, e l’idea di lasciare il lavoro e dedicarci alle persone che amiamo ed alle nostre passioni spesso è più attrattiva di quella di continuare a lavorare. Tuttavia, il numero di anni che passeremo in pensione è così elevato che prima di smettere di lavorare è necessario fare qualche calcolo per capire se quello che si avrà ci consentirà la vita che desideriamo.

I calcoli sull’importo pensionistico, nella realtà, si possono fare in maniera esatta solo alla fine del lavoro. Prima si possono, tuttavia, fare ipotesi accurate per indirizzare le proprie traiettorie verso la stabilità prima che sia troppo tardi. In tutti i casi, le logiche di calcolo sono molto semplici: i nostri contributi, obbligatori, che nei fatti vengono usati per pagare i pensionati di oggi, contabilmente generano un capitale, che si chiama montante contributivo. Per dare ad ognuno di noi una pensione equa, INPS divide questo capitale per il numero di anni medi che passeremo in pensione e ottiene una rendita, che ci verrà pagata mese per mese finché vivremo.

La tabella mostra l’esito di questa operazione. Tecnicamente, INPS pubblica divisori che rappresentano proprio il numero di anni nel quale ci si attende di pagare l’assegno a chi va in pensione alle età indicate. Ad esempio: il coefficiente 5,250% riferito ad un 65enne, significa che INPS stima di pagare la sua pensione per 19,04 anni. Dividendo il capitale maturato dai contributi per questa cifra, il nostro 65enne avrà indietro una pensione equa per lui e che non mette in crisi i conti del sistema.

Qual è tuttavia il risultato concreto di tutti questi meccanismi, regole, evidenze? Vale la pena di tradurre le regole in numeri, e di farci una idea di quel che potrà accaderci. Le tabelle che seguono indicano quanta pensione possiamo attenderci in percentuale sull’ultimo reddito.

Che fare?

La prima indicazione che ci sentiamo di dare è di non considerare i versamenti pubblici come un obbligo sgradito, ma come benzina per costruire un domani che sarà insufficiente ma comunque c’è.

È in ogni caso evidente che i calcoli saranno equi in termini aritmetici ma non consentono una vita qualitativamente prospera e serena. Quindi, e senza indugio, è bene dedicare parte del proprio risparmio alla costruzione di un futuro pensionistico più stabile, utilizzando le forme e gli strumenti messi a disposizione dal mercato finanziario e previdenziale. Inoltre:

  1. Interessatevi della vostra situazione, visitate i siti della vostra cassa previdenziale pubblica, scaricate i vostri estratti conto contributivi, simulate tempi ed importi
  2. Valutate l’adeguatezza degli importi alla vostra situazione attuale ed a quella desiderata, valutando, conti alla mano, che vita potreste fare con quelle somme mensili e ragionando sulla propria autonomia e indipendenza finanziaria. Non è infatti né giusto né rassicurante dover dipendere per tanti anni dai supporti del coniuge, dei figli, delle assistenze pubbliche
  3. Se l’esito delle valutazioni non è rassicurante, pensate, da subito, alle strategie più adeguate per fare fronte ad una longevità che non può essere subita, ma va preparata con cura

 

Le uscite di sicurezza

È strano dirlo, ma in Italia oltre ai sistemi di regole ci sono, spesso, possibilità temporanee di anticipare le età della pensione. Le più note sono Opzione Donna e Quota 103. Queste possibilità consentono di andare in pensione prima del dovuto, ma non in maniera “gratuita”. Ogni possibilità di andare in pensione “prima del dovuto” prevede, infatti, penalizzazioni negli importi o sistemi di calcolo che, a conti fatti, risultano poco convenienti, a meno che l’anticipo non sia così essenziale o necessario da pagarne un prezzo. Ognuno, naturalmente, deve valutare soggettivamente il costo di rimanere al lavoro o disporre di maggiore tempo per sé e le proprie passioni. Prima di fare scelte, tuttavia, sarebbe bene simulare con precisione la diminuzione dell’assegno pensionistico.

“È bene dedicare parte del proprio risparmio alla costruzione di un futuro pensionistico più stabile”

Conclusioni

Le prestazioni offerte dal sistema pensionistico italiano sono eque, ma potrebbero non bastare o potremmo non averne diritto. Per questo andrebbero integrate con strumenti previdenziali adeguati e capaci di metterci al sicuro di fronte a un nuovo grande rischio della vita: quello di vivere più a lungo dei propri soldi.

La tutela? é un progetto!

La tutela? é un progetto!

Spesso siamo così affaticati da cercare prevalentemente leggerezza. Lavoro, figli, affetti, soldi… i motivi di incertezza sono tanti, e talvolta ci sembra che il fatto di avere una casa riscaldata, una cena accogliente e nessuna brutta notizia sia già una conquista. Così, non troviamo la forza e il tempo per proteggere le nostre piccole e grandi conquiste fino a che, al primo imprevisto, capiamo che avremmo dovuto prevenirlo o mitigarne le conseguenze.

Proteggersi non è un episodio ma un comportamento abitudinario. Vedremo, di seguito, cosa implica e a cosa prestare attenzione.

Pericoli o rischi

La prima cosa da tenere in conto è che pericolo e rischio sono due cose diverse. Il pericolo è una fonte potenziale di rischi. Guidare può essere pericoloso, salire su una scala traballante, sciare fuori pista o nuotare col mare mosso sono attività pericolose. Un rischio è l’esito possibile di una attività pericolosa e può essere in qualche misura stimato. Le stime riguardano due aspetti. Il primo è la probabilità, che ci indica quante sono le possibilità percentuali che il pericolo generi un danno. Il secondo aspetto consiste nella gravità del danno e ci fa capire se saremmo o meno in grado di fronteggiarlo.

“Un rischio è l’esito possibile di una attività pericolosa e può essere in qualche misura stimato”

Il percorso più logico

Per capire quali rischi possono riguardarci e quali no, è bene considerare alcune cose:

–  chi o cosa è necessario proteggere
–  da quali rischi
–  per quanto tempo
–  di quanti soldi dovremmo disporre se il rischio si verifica

Il chi e cosa ci indicano quali persone e cose vanno considerate. In genere, alcuni rischi riguardano noi. Tra questi, la possibilità di rimanere invalidi e non poter più lavorare. Altri rischi riguardano le persone vicine. Ad esempio, la non autosufficienza di un genitore. Infine, ci sono danni che non riguardano persone ma cose, e che avrebbero un grande impatto negativo sulla qualità del vivere. Ne fanno parte, ad esempio, il patrimonio immobiliare (la casa) e quello finanziario (cosa succederebbe se fossimo chiamati a risarcire un grave danno prodotto ad altri?).

I rischi dai quali proteggersi sono molti, ma non troppi, ed alcuni sono personali e non generali. Ognuno di noi dovrebbe immaginare se il venire a mancare di un reddito, della salute o di oggetti e cose di valore metterebbe in crisi la propria stabilità. In termini generali, dovremmo considerare:

i rischi legati alla salute, derivanti da malattie o infortuni

–  la possibilità di venire a mancare lasciando altre persone con reddito insufficiente
–  la perdita di reddito per invalidità
–  la responsabilità civile verso terzi per danni che causiamo ad altri accidentalmente
–  la possibilità di subire danni patrimoniali alla casa o alle cose a seguito di furto, incendio e smarrimento
–  la probabilità di vivere molto a lungo in pensione, più a lungo dei propri soldi
–  la sottrazione di soldi per furto di identità digitale

Per ognuno di questi punti dovremmo simulare per quanto tempo può durare quel rischio e, soprattutto, di quanto denaro avremmo bisogno per ritornare alle condizioni di partenza, “prima del verificarsi del rischio stesso”. La tabella evidenzia il percorso consigliato ma non bisogna preoccuparsi della compilazione perfetta. Serve, infatti, a riflettere prima di confrontarsi con chi ha esperienza e competenza sui rischi che corriamo.

La protezione è, innanzitutto, prendere il controllo sui propri rischi e porsi domande sulla capacità di sopportarne le conseguenze. Domandarsi quali rischi corriamo, chi proteggere e per quanto tempo non costa nulla, e consente maggiore sicurezza e serenità.

Il progetto protezione: le 3 fasi

Certo, dover far fronte a una grande spesa perché non si è pensato a un rischio non è mai semplice, specie se ricorre l’idea che “avremmo dovuto pensarci prima”. Per questo, è bene ricordarsi che gestire un rischio vuol dire qualcosa in più che fare i conti. La gestione di un rischio, infatti, è un percorso continuo che comprende 3 fasi: educazione, prevenzione, tutela.

–  L’educazione aumenta il nostro sapere e si propone di aumentare le nostre capacità di valutare i rischi e conoscerne tipo e misura
–  La prevenzione si occupa di ridurre la probabilità che i rischi si verifichino, adoperando comportamenti protettivi
–  La tutela si occupa di assicurarci contro i rischi che non potremmo fronteggiare con i nostri soldi

“È bene ricordarsi che gestire un rischio vuol dire qualcosa in più che fare i conti, ma è un percorso continuo che comprende: educazione, prevenzione, tutela.”

Proteggersi non è un singolo atto ma un progetto, che parte dalla consapevolezza, dalla cultura del rischio, dal prendere coscienza dei nuovi pericoli e di cosa comportano. Molti rischi possono essere prevenuti adottando comportamenti quotidiani orientati alla sicurezza. Non tutto è però prevenibile e per questo bisogna tutelare il proprio benessere economico trasferendo le conseguenze economiche dei rischi assicurabili.

La gestione dei rischi: come decidere

L’educazione, ossia essere curiosi e voler sapere, riguarda tutto e tutti. La prevenzione è un atto di consapevolezza e un dovere civile, e dovrebbe diventare un’abitudine. La tutela, diversamente, non riguarda tutto e non è necessario assicurarsi sempre e contro tutto. Ci sono però rischi che devono essere assicurati.

Come capire cosa vale la pena di assicurare e cosa no?

Assicurarsi contro il raffreddore, ad esempio, sarebbe assurdo e il motivo è semplice: ci si assicura solo contro i rischi gravi, quelli che non possiamo fronteggiare da soli economicamente. Allo stesso tempo, se un rischio è così frequente da essere quasi certo, nessuno vuole assicurarlo. Le dimensioni del danno e quella della frequenza/probabilità, messe in relazione, ci aiutano a capire cosa fare con i nostri piccoli e grandi rischi.

La matrice ci guida a prendere decisioni efficaci. Se partiamo dal quadrante in basso a sinistra, ci sono piccoli rischi, poco frequenti e dannosi come, ad esempio, perdere le chiavi di casa. Succede di rado e il costo di un fabbro non ci mette in ginocchio quindi questo tipo di rischi non lo si assicura. Salendo di probabilità, abbiamo già accennato a raffreddori ed influenze: non producono grandi danni e quindi è inutile assicurarli. Spostandoci in alto a destra ci sono rischi così frequenti e dannosi che non possono essere assicurati. Obesità, alcoolismo, fumo, sport pericolosi sono rischi che scegliamo di correre, e non possiamo chiedere alle assicurazioni di venirci in soccorso se non lo facciamo prima noi. Ci sono, infine, rischi poco probabili ma altamente di impatto, quelli inseriti nella tabella poco sopra. Questi rischi non possono essere tenuti sulle spalle e vanno trasferiti ad una assicurazione. L’assicurazione con i piccoli premi di molti è in grado di coprire i grandi danni di pochi e questa capacità ha consentito alla specie umana di evolvere. Non è, tuttavia, un tema da affrontare con ingenuità o superficialità, e per questo è necessario un operatore affidabile dal quale farsi aiutare.

Una delle conquiste più alte dell’era moderna è data dall’assicurazione, che con il contributo di molti sostiene i rischi di pochi. Dovremmo però trasformare la protezione in una abitudine, che periodicamente ci mette a confronto con i rischi e seleziona quelli piccoli da quelli insostenibili.

Conclusioni

Proteggersi non è una singola scelta, ma un percorso, che richiede conoscenze, prevenzioni e tutele. La protezione è un percorso da affrontare con metodo, perché ha grandi impatti sulla serenità personale e familiare, sulla possibilità di fronteggiare imprevisti e di dormire sonni tranquilli. Per questo non va evitata ma “installata” all’interno delle attenzioni quotidiane, confrontandosi con chi dedica la propria esperienza e competenza a proteggere le persone e le cose a cui teniamo.

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