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Donne

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L’uguaglianza dovrebbe essere un valore fondamentale di ogni società, eppure siamo ancora lontani da una vera parità di genere. Le donne lavorano in media meno ore retribuite rispetto agli uomini, guadagnano stipendi inferiori e dedicano gran parte del tempo alla cura della famiglia. Questa disuguaglianza ha pesanti conseguenze economiche: alla fine della carriera si ritrovano con un divario reddituale di decine di migliaia di euro e un rischio più elevato di non avere abbastanza denaro per gestire le emergenze del presente e sostenere la vecchiaia. Cosa possiamo fare per cambiare le cose?

Donne e lavoro: qualche dato

L’INPS dipinge un quadro chiaro nel suo “Rendiconto di genere 2024”. Il tasso di occupazione femminile, fermo al 52,5% nel 2023, è chiaramente inferiore rispetto al 70,4% di quello maschile. Questa disparità si manifesta anche nella stabilità lavorativa: il 18% delle lavoratrici ha un contratto a tempo indeterminato, contro il 22,6% degli uomini. Più critico è il part-time involontario, che riguarda ben il 15,6% delle donne, spesso costrette ad accettare orari ridotti per bilanciare impegni familiari e professionali. Solo il 21,1% dei dirigenti in Italia è donna, un dato che riflette un chiaro ostacolo all’avanzamento professionale. A tutto ciò si aggiunge il gap retributivo: le donne guadagnano in media oltre il 20% in meno degli uomini.

Questi dati parlano chiaro e dimostrano come il percorso di vita femminile sia un percorso ad ostacoli con impatti evidenti sul loro benessere economico.

Donne e longevità: una grande sfida

n un corso di vita che pone tutti di fronte a nuove sfide, ce n’è una enorme: la longevità. Le donne vivono in media più a lungo degli uomini, una tendenza che si osserva in quasi tutte le società a livello globale. Questa tendenza porta con sé sfide specifiche. È sempre l’Inps a ricordarci che, pur costituendo la maggior parte dei beneficiari di pensioni, le donne ricevono importi significativamente più bassi. Ad esempio, la pensione di vecchiaia è mediamente inferiore del 44% rispetto a quella di un uomo.

Questo divario è la diretta conseguenza di carriere lavorative più discontinue e frammentate. Le donne hanno utilizzato 14,4 milioni di giornate di congedo parentale, contro i soli 2,1 milioni degli uomini.

Il sistema pensionistico, in sintesi, non fa che amplificare le disuguaglianze già presenti nel mercato del lavoro. Prepararsi dunque, anche da un punto di vista economico, pianificando la propria vita in pensione è cruciale per potersi garantire il benessere meritato.

Il benessere delle donne, un obiettivo comune

Che fare dunque? Il dibattito sull’uguaglianza di genere non è più confinato alle sole questioni sociali e personali, ma è diventato un pilastro centrale delle strategie di sviluppo a livello globale. Le istituzioni internazionali, come l’ONU, hanno riconosciuto che il pieno potenziale di una società passa attraverso lo sviluppo del benessere delle donne. Questa visione è formalizzata nell’Agenda 2030, dove l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile numero 5 (SDG 5) è interamente dedicato all’uguaglianza di genere, dimostrando il suo ruolo trasversale per il successo di tutti gli altri obiettivi.

Quando le donne hanno pari accesso a istruzione, occupazione e ruoli di leadership, l’intero sistema ne beneficia. Ad esempio, una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro si traduce direttamente in un aumento del PIL, stimolando l’innovazione e la produttività. Questa correlazione era già stata intuita da figure come Gro Harlem Brundtland, ex Primo Ministro norvegese, che sosteneva che l’emancipazione femminile non fosse solo un diritto umano fondamentale, ma anche una componente essenziale dello sviluppo sostenibile. La sua visione era chiara: ignorare il contributo della metà della popolazione significa limitare il progresso dell’intera società.

First of all: autonomia economica per tutte

Che fare dunque? Il primo passo, essenziale, è non rinunciare (mai) alla propria autonomia economica.

Viviamo in un’epoca di grandi cambiamenti sociali, che porta sempre più a guardare alla propria sicurezza finanziaria non solo in un’ottica familiare, ma anche individuale.

Ogni donna (e ogni uomo) deve essere in grado di cavarsela con le proprie forze economiche, in qualsiasi momento della vita. Questa esigenza è la diretta conseguenza di un “nuovo corso di vita” che presenta sfide inedite.

Tra queste, ad esempio, l’aumento delle separazioni e dei divorzi che mettono a rischio la solidità economica dei singoli membri della coppia. Anche le nuove forme familiari giocano un ruolo fondamentale: in Italia, il 36% (Istat 2024) delle persone vive da sola, e la maggioranza sono donne. A questo si aggiunge la longevità femminile: vivendo mediamente più a lungo, molte di loro si potrebbero trovare a gestire un lungo periodo della loro vita senza un partner, dovendo contare solo sulle proprie risorse e con assegni pensionistici spesso esigui.

“Ogni donna (e ogni uomo) deve essere in grado di cavarsela con le proprie forze economiche, in qualsiasi momento della vita”.

Conoscere i requisiti pubblici

Per poter gestire i rischi del “nuovo” corso di vita occorre inoltre assumere consapevolezza sui diritti pubblici offerti dal Welfare State. Spesso si dà infatti per scontato che il sistema tuteli i cittadini in ogni evenienza, ma la realtà è più complessa e richiede una consapevolezza attiva.

Il sistema previdenziale italiano, si basa su un modello che supporta principalmente le famiglie formalmente costituite. Ad esempio le unioni di fatto, anche se durature e con figli, non sono equiparate al matrimonio in materia di diritti. Un esempio è la pensione ai superstiti, che viene erogata al coniuge del defunto. In caso di morte del partner, una donna che ha condiviso un’intera vita con lui, magari per decenni, ma senza sposarsi, non ha diritto ad alcuna prestazione.

La necessità di consapevolezza si estende anche al tema dell’eredità. Le leggi sulla successione privilegiano infatti i legami di parentela formali. In assenza di un testamento, un cugino di secondo grado ha più diritti sui beni della persona scomparsa rispetto alla compagna di una vita.

I requisiti non riguardano solo la formalizzazione dell’unione familiare, ma anche la continuità lavorativa. Così, ad esempio, per aver diritto alla pensione di inabilità occorre aver lavorato con continuità per almeno 5 anni, di cui 3 negli ultimi 5. Quante donne hanno dovuto lasciare il lavoro per dedicarsi ai figli o ad un genitore malato e faticano a ritrovarlo?

“Per poter gestire i rischi del “nuovo” corso di vita occorre innanzitutto assumere consapevolezza sui diritti pubblici offerti dal Welfare State.”

Per tutti questi (ed altri) motivi, per una donna, assumere consapevolezza su questi meccanismi non è un’opzione, ma un atto di tutela del proprio benessere e della propria serenità futura.

Significa informarsi non solo sulla propria pensione, ma anche sui diritti in caso di eventi imprevisti. Significa comprendere i vantaggi (e gli svantaggi) di formalizzare un’unione, di redigere un testamento o di trovare delle strategie di pianificazione coerenti con i propri desideri di protezione, pensione, investimento e passaggio generazionale.

Tutto questo non va fatto in solitudine, ma facendosi supportare da professionisti capaci di leggere i bisogni economici e metterli in relazione con le strategie più coerenti e utili.

Conclusioni

In un mondo in continua evoluzione, dove le dinamiche familiari e sociali si trasformano rapidamente, l’autonomia economica non è più un’opzione, ma una necessità fondamentale. Per le donne, in particolare, essere soggetti attivi nella pianificazione del proprio benessere significa prendere in mano il controllo del proprio futuro. Questo richiede una profonda consapevolezza sui rischi specifici che possono presentarsi, come l’aumento delle separazioni e dei divorzi, l’alta percentuale di persone sole e la maggiore longevità femminile. Un esempio lampante di questa necessità è la conoscenza dei propri diritti previdenziali: il sistema italiano, spesso, non tutela le unioni di fatto, lasciando le donne senza diritti come la pensione di reversibilità, nonostante una vita intera trascorsa al fianco del partner. Pianificare il proprio benessere economico rappresenta un atto di libertà che permette di affrontare gli imprevisti con resilienza e di costruire un futuro che non dipenda da nessuno, garantendosi sicurezza e serenità.

Giovani e il risparmio

Giovani e il risparmio

I giovani hanno davvero perso la capacità di risparmiare? Oppure sanno ancora costruire basi solide per il loro futuro? Qual è il peso delle difficoltà economiche, della precarietà e del costo della vita sulle loro scelte quotidiane? E quanto incidono le mode, le pressioni sociali e un mondo che spinge al consumo immediato? Le ricerche mostrano luci e ombre: da un lato entusiasmo, dall’altro incertezze e timori. Ma è proprio in questa tensione tra presente e futuro che si gioca la sfida più grande: capire come i giovani possano trasformare il risparmio e l’investimento in un vero strumento di crescita personale ed economica.

Perché i giovani faticano a risparmiare oggi

Innanzitutto, quando parliamo di giovani, intendiamo la fascia di età che va dai 18 ai 35 anni. Le ricerche (Fonte: Assogestioni-Censis, V Rapporto su giovani e risparmio, 2024) fanno emergere che la maggior parte di loro ha incorporato il concetto di risparmio, tanto è vero che poco meno del 90% di loro applica una qualche forma di risparmio.

Perché risparmiano? Per la sicurezza quotidiana: il 53,5% mette da parte per fronteggiare imprevisti. Per sfizi e consumi: il 30,4% per viaggi e piccoli desideri. Ma si risparmia anche per acquisti importanti: il 26% per casa o auto. Mentre, il 24,6% vuole costruire ricchezza per un patrimonio futuro.

Tuttavia, c’è di rilevare una serie di aspetti per capire comportamenti, tendenze e cosa si può fare per migliorare il benessere economico e finanziario a partire da questa fascia di età. Purtroppo, i giovani si trovano ad affrontare alcune criticità:

  • redditi bassi e precarietà lavorativa, che riducono la capacità di accumulo;
  • costo della vita elevato, in particolare affitti, casa, formazione;
  • pressione sociale al consumo, tra viaggi, tecnologia e tempo libero;
  • divario patrimoniale: nel 2022 la ricchezza media delle famiglie giovani era di 154.000 euro contro i 321.000 di quelle anziane.

In pratica, i giovani risparmiano, ma poco perché partono da condizioni più fragili.

Il risparmio, un punto di partenza

I giovani vivono immersi in un’epoca che li spinge al consumo immediato, bombardati da messaggi pubblicitari e da modelli sociali che esaltano il “qui e ora”. Questa cultura del presentismo riduce la propensione a pensare al futuro e a pianificarlo. Le incertezze economiche, le crisi globali e le delusioni verso la politica e le istituzioni alimentano un sentimento di sfiducia che porta molti a cogliere il presente come unica certezza. Le ricerche Assogestioni-Censis mostrano che oltre la metà dei giovani si lascia condizionare da eventi improvvisi, prendendo decisioni impulsive sui propri risparmi. Allo stesso tempo, si evidenzia come solo il 15% investa davvero, nonostante il 70% dichiari di volerlo fare nei prossimi due anni (Risparmio e investimenti: il potenziale dei giovani italiani | We Wealth). In sostanza, la difficoltà non è solo economica ma anche culturale: senza strumenti di educazione e senza fiducia nel futuro, il rischio è di vivere alla giornata, trascurando le opportunità di costruzione graduale del proprio benessere economico.

“I giovani vivono immersi in un’epoca che li spinge al consumo immediato del “qui e ora”. Questa cultura riduce la propensione a pensare al futuro e a pianificarlo”

Prospettive future

Sempre nelle ricerche del Censis emerge che solo il 15% dei giovani investe davvero i propri risparmi, ma ben il 70% dichiara che vorrebbe farlo nei prossimi due anni. Ma cosa cercano in particolare?

  • Sicurezza nel tempo (44,4%)
  • Diversificazione (35,1%)
  • Buoni rendimenti (35%)
  • Eticità e valori ESG (23,7%)

Ben 82,7% dei giovani investitori teme di perdere i propri soldi. Timore legittimo ma che rischia di bloccare l’unico vero vantaggio competitivo che hanno: iniziare presto e sfruttare i benefici dell’interesse composto, sia per l’investimento che per la previdenza. Facciamo un piccolo esempio storico di cosa significa: un 20enne che avesse investito nel 1988 ogni anno 100 euro (al potere di acquisto di oggi) ogni mese in un fondo di investimento che investe in azioni globali avrebbe oggi all’età di 55 anni un montante pari a 120.922€, su un capitale versato di 31.688€ (Dati a luglio 2025 su indice di mercato Msci world tr su performance reali).

Ma le ricerche Assogestioni-Censis mostrano che i giovani si lasciano guidare troppo dall’emotività:

  • 56,9% controlla continuamente gli investimenti, rischiando mosse impulsive.
  • 54,7% si lascia condizionare da eventi globali come guerre o crisi economiche.
  • 35,2% segue la maggioranza (“herd behavior”).

Questi comportamenti portano a scelte avventate, spesso contrarie alla logica di un buon investimento che richiede tempo, pazienza e coerenza. In questo contesto, non sorprende che i giovani siano più attratti dalle criptovalute (17%) rispetto agli adulti (9%) (www.dire.it). Ma proprio il diffondersi di soluzioni speculative, presentate con un linguaggio vicino al mondo giovanile, impone massima attenzione: servono programmi di educazione finanziaria per evitare che strumenti poco trasparenti creino una falsa sensazione di sicurezza per il futuro economico.

Le sensibilità dei giovani

I giovani non guardano solo al rendimento: sempre più spesso vogliono che i loro soldi abbiano un impatto positivo sul mondo. Le ricerche Assogestioni-Censis mostrano che il 23,7% dei giovani considera l’eticità e i valori ESG tra i criteri più rilevanti nelle scelte di investimento. Questa sensibilità è confermata a livello europeo, dove oltre l’80% dei giovani ritiene che la lotta ai cambiamenti climatici debba essere una priorità. L’interesse non è solo teorico: molti giovani chiedono strumenti digitali che permettano di gestire il risparmio e accedere a piani di accumulo personalizzati, con attenzione alla sostenibilità.

Anche i grandi operatori finanziari segnalano che le nuove generazioni sono più disposte ad accettare rendimenti leggermente inferiori pur di investire in aziende responsabili. Infatti, tra gli italiani informati sui fondi ESG (Consob) , circa il 15% dei giovani è disposto ad accettare rendimenti inferiori pur di investire in modo sostenibile. In questo senso, i giovani appaiono non solo come investitori emergenti, ma anche come i veri protagonisti di una trasformazione culturale che coniuga crescita economica e attenzione verso il pianeta.

I giovani non sono cicale

Ci sono anche segnali incoraggianti che fanno ben sperare: giovani che non solo sperimentano sfiducia, ma che muovono passi verso il futuro con fiducia e idee concrete. Secondo l’indagine “Tra speranza e pragmatismo: ritratto dei giovani Italiani” dell’IUSVE-Ipsos, il 59% dei giovani crede che l’intelligenza artificiale avrà un impatto positivo sul mondo del lavoro, e il 65% ritiene che essa creerà nuove professioni (https://www.iusve.it/indagine-iusve-ipsos/).

Si afferma anche un ritorno di partecipazione attiva: nel 2024 torna sopra il 10% la partecipazione al volontariato tra i diciotto-diciannovenni, segno che i giovani cercano già occasioni concrete per dare senso al presente (Openpolis).

Questi elementi fanno capire che, anche se persistono sfide reali, economiche, sociali, ambientali, esiste una base concreta su cui costruire: giovani disposti a informarsi, a sperimentare, a partecipare. E con l’aiuto di buone politiche pubbliche, educazione finanziaria e istituzioni affidabili, queste speranze possono tradursi in cambiamento vero.

“Segnali incoraggianti che fanno ben sperare, mostrano giovani muovono passi verso il futuro con fiducia e idee concrete”

Conclusioni

I giovani non sono una generazione distratta, ma una generazione in cerca di strumenti. Hanno incorporato il valore del risparmio e desiderano investire, ma spesso si trovano disorientati tra precarietà, pressioni sociali e offerte speculative. Le ricerche mostrano però che cresce la sensibilità verso la sostenibilità, l’innovazione e la costruzione di un futuro migliore. Con il giusto supporto educativo e consulenziale, il vantaggio del tempo può trasformarsi in un motore potente di ricchezza e benessere. Non si tratta solo di accumulare capitale, ma di dare forma a un progetto di vita solido, responsabile e in armonia con il mondo che li circonda. In questo, i giovani hanno tutte le carte in regola per diventare i veri protagonisti economici e sociali dei prossimi decenni.

“I giovani non sono vasi da riempire, ma fuochi da accendere.” (Plutarco)

Sostenibilità e investimenti sostenibili

Sostenibilità e investimenti sostenibili

Quando pensiamo alla sostenibilità, immaginiamo pannelli solari, auto elettriche o aziende attente all’ambiente. Ma la sostenibilità non riguarda solo i consumi quotidiani, è ormai una parte integrante del mondo degli investimenti. Scegliere dove mettere i propri soldi significa anche decidere quale futuro vogliamo contribuire a costruire.

“La sostenibilità è l’arte di vivere bene oggi senza compromettere il domani.” (Gro Harlem Brundtland)

Perché la sostenibilità riguarda anche le nostre finanze

Secondo Eurobarometro, oltre 8 europei su 10 concordano sul fatto che la lotta ai cambiamenti climatici dovrebbe essere una priorità per migliorare la salute pubblica e la qualità della vita. Il 77% degli europei concorda sul fatto che agire in materia di cambiamenti climatici favorirà l’innovazione.

In Italia, quasi 1 risparmiatore su 2 dichiara di essere interessato a soluzioni di investimento sostenibile, anche se molti non sanno bene come funzionano. Investire in modo sostenibile non significa solo “fare del bene”, ma anche ridurre rischi futuri: un’azienda che inquina, discrimina o non innova è più esposta a multe, crisi reputazionali e perdita di competitività.

Nella valutazione delle aziende un tempo si guardava il risultato finale, la cosiddetta “ultima riga del bilancio”, cioè l’utile. Oggi, quella visione è stata superata dalla convinzione che il valore di un’azienda risiede nell’integrazione dei risultati economici e dai risultati di sostenibilità ambientale, sociale e di governance.

Cosa significa investire in modo sostenibile

Gli investimenti sostenibili non sono atti di beneficenza, puntano a generare rendimento economico insieme a benefici ambientali e sociali. Investire in aziende che valutano attentamente gli impatti delle proprie attività e integrano criteri di sostenibilità significa puntare su una visione di lungo termine. Scelte come adottare tecnologie a basso impatto ambientale o introdurre politiche orientate al benessere dei dipendenti comportano spesso costi iniziali elevati, ma producono effetti virtuosi nel tempo.

Le imprese che adottano per tempo questi approcci, o che li hanno già nel proprio DNA, risultano avvantaggiate, migliorano la reputazione, attirano più facilmente talenti e capitali, e si dimostrano più resilienti nei contesti di mercato in evoluzione.

Secondo una metanalisi di più di 2.000 studi condotta da Friede, Busch e Bassen (2015 – ESG and financial performance: aggregated evidence from more than 2000 empirical studies. Gunnar Friede Timo Busch and Alexander Bassen), l’80% delle ricerche mostra una relazione positiva tra performance ESG e risultati finanziari, sia a livello aziendale che di portafoglio.

Un’altra famosa ricerca (D.-G. Tremblay 2021), ha evidenziato un +25% di permanenza del personale in strutture che adottano politiche di work-life balance, cioè l’insieme di misure, strumenti e pratiche per aiutare i propri dipendenti a conciliare meglio gli impegni professionali con quelli personali e familiari. Mentre lo studio di Wang ha fatto emergere che la cura per i dipendenti produce una maggiore efficienza operativa fino al 30%.

Le 3 dimensioni ESG

Come abbiamo visto, quando si parla di sostenibilità non ci si riferisce solo all’ambiente, ma anche al benessere delle persone coinvolte nel sistema azienda, i dipendenti che ci lavorano, i fornitori che la supportano e i clienti che ne acquistano prodotti e servizi. La vera sfida era capire come raccogliere e unificare tutti questi elementi in un modello di valutazione che riflettesse ciò che i fatti hanno reso evidente e rilevante per tutti.

È proprio in questa direzione che nel 2004 nasce il famoso acronimo ESG, coniato su iniziativa del segretario generale delle Nazioni Unite dell’epoca, Kofi Annan. Il termine identifica i tre pilastridella sostenibilità a lungo termine:

E – Environmental: impatto sull’ambiente (consumo energetico, emissioni, gestione dei rifiuti);
S – Social: attenzione alle persone (diritti dei lavoratori, sicurezza, inclusione, parità di genere);
G – Governance: qualità della gestione (trasparenza, etica, sistemi di controllo)

Da allora, ESG è diventato lo standard globale per valutare la responsabilità e la sostenibilità delle imprese. Le aziende che operano con solidi criteri ESG tendono a ottenere performance più stabili e durature nel tempo. Si tratta di un cambiamento culturale profondo che non produce benefici immediati, ma genera valore sostenibile nel lungo periodo.

“Con il termine sostenibilità non ci si riferisce solo all’ambiente, ma anche al benessere delle persone coinvolte nel sistema azienda”

Quanto valgono oggi gli investimenti sostenibili

La Commissione Europea ha introdotto regole (Tassonomia UE) che definiscono cosa può essere considerato sostenibile, per evitare il cosiddetto greenwashing (aziende che si dipingono verdi senza esserlo davvero). Non solo, ma gli strumenti di investimento come Fondi Comuni e Sicav, sono classificati in tre categorie in base alle politiche di sostenibilità:

1 – Fondi tradizionali, cioè non ESG (articolo 6 SFDR – acronimo di Sustainable Finance Disclosure Regulation, cioè il Regolamento europeo 2019/2088 sull’informativa di sostenibilità nel settore dei servizi finanziari. )
2 – Fondi ESG, o light green, cioè promuovono la sostenibilità ma non è il principale obiettivo
3 – Fondi a impatto, o dark green, che hanno come obiettivo principale un impatto sostenibile.

Nel 2024, oltre il 20% dei fondi comuni in Europa rientrava nella categoria “sostenibili” (Morningstar) . Secondo la Global Sustainable Investment Alliance (GSIA), gli asset globali investiti in strategie sostenibili hanno superato i 30,3 trilioni di dollari nel 2022 (gsi-alliance.org). Bloomberg Intelligence prevede che entro il 2030, gli asset ESG globali supereranno i 40 trilioni di dollari, pari a oltre il 25% dei totali asset sotto gestione mondiale (Bloomberg.com, Professional Wealth Management).

Fonti più recenti indicano che gli asset gestiti in fondi sostenibili (mutual funds ed ETF) hanno raggiunto circa 3,5 trilioni di dollari nel secondo trimestre del 2025, con l’85% concentrato in Europa.

In Europa, i fondi sostenibili raccolgono più della metà dei nuovi flussi di risparmio. Gli italiani sono tra i più interessati, ma ancora poco informati, solo il 23% sa spiegare bene cosa siano i fondi ESG (Consob, 2023). Tra le persone informate tuttavia, circa il 15% degli italiani dichiara di essere disposto a investire in modo sostenibile anche se ciò comportasse rendimenti inferiori rispetto ad altri prodotti finanziari.

Opportunità e rischi da conoscere

Investire in fondi ESG presenta diverse opportunità interessanti. Le aziende che adottano criteri ambientali, sociali e di governance dimostrano spesso una maggiore resilienza durante le crisi, grazie a modelli più sostenibili e lungimiranti. Inoltre, gli incentivi pubblici a favore della transizione ecologica stanno aumentando, creando condizioni favorevoli per chi investe in modo responsabile. Non da ultimo, scegliere investimenti sostenibili consente di allineare le scelte finanziarie con i propri valori etici e sociali.

Tuttavia, esistono anche dei rischi. I rendimenti nel breve periodo non sono sempre superiori a quelli dei mercati tradizionali. Inoltre, la presenza di fondi concentrati in pochi settori, come tecnologia o energie rinnovabili, può aumentare l’esposizione specifica. Va anche considerato il rischio di greenwashing, cioè l’uso improprio del termine ”sostenibile” per fini di marketing. Tali aziende rischiano danni reputazionali, perdita di fiducia da parte di clienti e investitori e possibili sanzioni normative. Nel lungo periodo, questo comportamento compromette anche la loro credibilità sul mercato.

“Scegliere investimenti sostenibili consente di allineare le scelte finanziarie con i propri valori etici e sociali.”

Conclusioni

Investire in modo sostenibile non è solo una scelta etica, ma anche una strategia concreta per costruire valore nel lungo periodo. Gli strumenti di investimenti ESG permettono di allineare rendimento, responsabilità e visione futura, offrendo stabilità in un mondo in trasformazione. Conoscere rischi e opportunità è essenziale per evitare il greenwashing e il supporto di un esperto ci permette di fare scelte informate. Il futuro si costruisce, anche con le nostre decisioni finanziarie.

Le previdenze complementari

Le previdenze complementari

Vituperate, maltrattate, accusate… le previdenze pubbliche sono, anche ingiustamente, sotto la lente dell’accusa. Se dobbiamo andare in pensione troppo tardi ci sembrano inique, se consentono di andarci troppo presto sono insostenibili. Certo, alcuni fatti sono incontrovertibili. I conti, ad esempio, saranno pure equi ma una vita di contributi si traduce, quasi sempre, in un assegno mensile insufficiente. Che fare, dunque?

Dal dire al fare c’è di mezzo l’integrare

La soluzione è molto semplice, e non è neppure nuova perché è stata testata e rodata per bene: si chiama previdenza complementare. Sarà affidabile? Chi la gestisce? Costa troppo, rende a sufficienza? Ci darà davvero una pensione?

Le domande che frenano lo sviluppo di un servizio che oramai è divenuto essenziale per darci il benessere che meritiamo sono molte.

“La soluzione per ottenere il benessere che meritiamo si chiama previdenza complementare”

Così, da giovani rimandiamo la decisione perché ci pare troppo presto e all’avvicinarci della pensione rimpiangiamo di non averci pensato prima.

Quale incantesimo ci impedisce di fare quel che tutti sappiamo di dover fare? Proviamo a dare alcune risposte.

L’ABC della previdenza complementare

Il meccanismo di base delle previdenze complementari è molto semplice: si investono dei soldi (liberi nella misura e nella periodicità) e questi soldi generano, all’età in cui scatta la pensione pubblica, un capitale, che in tutto o in parte si converte in un assegno pensionistico che durerà per tutta la vita. La fase di creazione del capitale “servile” si chiama fase di accumulo e dura finché non si entra in pensione.

La fase di percezione dell’assegno pensionistico, in forma di rendita vitalizia, si chiama decumulo perché tecnicamente usa il capitale un po’ per volta per essere convertito in una rendita.

Il funzionamento standard è semplice, come abbiamo messo in luce, ed è lo stesso di ogni forma previdenziale, pubblica e privata. Quello che cambia è il soggetto, il tipo di investimento, il modo in cui il capitale si trasforma in rendita. In tutti i casi, sono previste possibilità di uso diverse da quelle immaginate.

I soggetti autorizzati a istituire una forma di previdenza complementare sono diversi, e danno luogo a diverse forme:

Ogni forma ha propri costi, gestionali e distributivi, che influiscono sulla prestazione finale e che remunerano amministrazione, gestione, distribuzione.

Le logiche della previdenza complementare

Veniamo al tipo di investimento. Qui la differenza rispetto alla pensione pubblica è enorme, perché i soldi delle previdenze complementari vengono accantonati e rendicontati in una posizione individuale, mentre l’INPS, che versa i contributi dei lavoratori ai pensionati, non ha di fatto riserve e “cassa”.

Inoltre, mentre il rendimento dei contributi pubblici obbligatori è connesso all’andamento del PIL, qui i rendimenti deriveranno dal comparto di investimento che si sceglie, all’interno delle possibilità offerte da ogni singola forma. Se si ha tempo, come sempre, conviene scegliere investimenti più azionari, per cogliere la crescita del mondo, sopportando qualche oscillazione. Se il tempo è poco, meglio scegliere forme più conservative, per evitare bruschi sbalzi del proprio capitale a ridosso della pensione.

La cosa interessante dell’investimento previdenziale è che, dati i tempi spesso molto lunghi, investire in strumenti a basso rischio finanziario significa privarsi dalla partecipazione alla crescita dei mercati e, in ultima analisi, ridursi la pensione complementare attesa. Allo stesso tempo, bisognerebbe essere capaci di non guardare il proprio investimento pensionistico troppo di frequente, perché non si deve fare una corsa da velocista ma una maratona. Per unire tempi lunghi e sicurezza all’avvicinarsi dell’età pensionabile, molti fondi pensione usano un meccanismo automatico di arretramento del profilo di rischio via via che passa il tempo. Questo meccanismo, definito “Life cycle” è ritenuto particolarmente coerente con il tipo di investimento.

“Bisognerebbe essere capaci di non guardare il proprio investimento pensionistico troppo di frequente, perché non si deve fare una corsa da velocista ma una maratona”

Infine, il capitale viene trasformato in rendita ma… come? Essendo la previdenza un tema di interesse pubblico, e per questo fortemente regolamentato, la trasformazione avviene utilizzando tavole statistiche approvate dalle istituzioni di controllo e che stimano la durata di vita media del pensionando. Le statistiche considerano le età di inizio pensione, e i rapporti di conversione tra capitale e rendita sono uguali a prescindere dal genere di appartenenza. Le pensioni complementari sono gestite da Compagnie di assicurazione sia nei fondi negoziali che in quelli aperti e nei PIP per garantire la gestione sicura ed efficiente dei pagamenti delle rendite.

In estrema sintesi, si versano dei soldi, i mercati ed i gestori sono incaricati di farli crescere e alla fine ciascuno avrà, per sempre, una pensione calcolata sull’aspettativa di vita media, controllata e tutelata. Il meccanismo è simile a quello delle previdenze pubbliche, ma con alcune differenze significative, che troverete in tabella:

Il meccanismo non è dunque complesso ma…sono sicure le forme pensionistiche complementari?

Quanto è protetta e incentivata la previdenza complementare

Iniziamo col dire da subito, che la previdenza complementare è stata istituita per legge ed è tutelata ed incentivata perché il benessere dei pensionati è tema di interesse pubblico. Le due leggi che hanno istituito prima e regolato poi l’intero settore sono il decreto Legislativo 21 aprile 1993, n. 124 ed il decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252.

Più specificamente, la previdenza complementare in Italia è soggetta a un sistema di tutela molto solido, a protezione degli aderenti e che comprende una rigorosa sorveglianza della COVIP, Commissione di vigilanza sui fondi pensione, l’autorità pubblica preposta alla vigilanza sull’intero sistema della previdenza complementare. Vi è inoltre, come accennato, una totale separazione patrimoniale tra il patrimonio dei fondi pensione e quello degli enti che li hanno istituiti e/o che ne gestiscono le risorse.

Non ci sono solo garanzie, ma anche incentivi. I tre principali sono:

Come scegliere il piano più appropriato

Le variabili che influiscono su tutti i fondi pensione sono tre: i costi, la gestione finanziaria e la conversione in rendita.

Certo, tutti vorremmo un prodotto che rende molto, costa poco e converte con i massimi coefficienti ma la realtà è differente ed ogni forma ha un suo equilibrio.

C’è inoltre da aggiungere due temi: nelle forme negoziali, il contributo datoriale aiuta a costruire capitale e quindi rendita.

Nelle forme aperte e individuali, bisogna valorizzare attentamente il contributo della consulenza, ossia del lavoro di esperti professionisti che ci aiutano a scegliere. La misura del versamento, il comparto più coerente con i tempi ed i rischi, le modalità di utilizzo delle somme accantonate e, soprattutto, ci aiuta a non rimandare le scelte che vanno fatte “oggi”.

Per fare un esempio, con 1.000 euro all’anno investiti in una forma pensionistica a rischio medio a 30 anni potremmo aspirare (scenari probabilistici) a una pensione integrativa 3.665 euro, mentre se iniziamo il versamento a 40 anni la rendita scenderebbe a 2.000 euro.

Conclusioni

Rammaricarci per lo scarso apporto delle previdenze pubbliche è frequente, ma non sufficiente se non adottiamo le contromisure necessarie. Il supporto più naturale per integrare la previdenza pubblica è la previdenza complementare, che unisce sicurezza, efficacia, flessibilità ed è incentivata.

Un piano di previdenza non è complesso in sé; richiede però valutazioni sul versamento, sul comparto di investimento, sull’utilizzo delle possibilità che è bene valutare con chi professionalmente si occupa del tema. In tutto questo, come sempre, non si può non decidere ed ogni ritardo si ripercuote, meccanicamente, sulla prestazione che avremo. Ne deriva, semplicemente, che il migliore giorno per iniziare un piano previdenziale è oggi.

La pensione: quando, quanto

La pensione: quando, quanto

I tempi e i soldi: quanto contano

Quando si pensa alla pensione, la si considera spesso come un traguardo, un filo di lana che segna la fine di una corsa. Le cose sono molto diverse: il traguardo pensionistico, infatti, è solo un punto intermedio, che peraltro qualcuno sposta avanti o indietro di continuo. Inoltre, proprio perché è intermedio, dopo il primo traguardo c’è un altro, lungo e importante, cammino da fare. Quanta benzina ci serve per affrontarlo? Sarà pianeggiante, in salita, dritto o inframezzato da curve?

Per gestire bene questa “seconda parte” del viaggio della vita bisogna misurare i quando ed i quanto. Altrimenti, si vive di rimorsi e privazioni. Misurare i tempi significa capire quando arriveremo in pensione e quanto tempo ci passeremo. Misurare i soldi significa sapere quanto ci servirà per vivere bene e a lungo e questo è fortemente condizionato da quanto potremo aspettarci dalle previdenze pubbliche.

“Misurare i tempi significa capire quando arriveremo in pensione e quanto tempo ci passeremo. Misurare i soldi significa sapere quanto ci servirà per vivere bene e a lungo”

Dimmi quando, quando, quando

“Dimmi quando tu verrai, dimmi quando, quando, quando…”. Il testo riportato è tratto da una canzone del 1963, più o meno quando nacquero coloro che andranno in pensione nei prossimi (pochi) anni. Per noi, che ci occupiamo di pensione, i “quando” da considerare sono 5:
–  Quando vorrei iniziare la mia pensione. È, questo, un tempo del desiderio, che è del tutto disaccoppiato dai tempi di legge o quelli del lavoro
–  Quando posso smettere di lavorare. Questo tempo si definisce in base ai requisiti della propria posizione previdenziale, ed alle azioni che possono modificarli (esempio: il riscatto degli anni di laurea)
–  Quando è possibile che io mi trovi senza lavoro. È un tempo di emergenza, che andrebbe considerato e che riguarda la possibilità che negli ultimi anni il lavoro finisca prima che si siano maturati i requisiti pensionistici
–  Quanto a lungo vivrò in pensione. È il tempo di permanenza nella “pensione”, che aumenta di continuo per la crescita generale della longevità umana
–  Come cambieranno i tempi di inizio e di fine della pensione. I tempi di inizio e di fine, di legge sono infatti continuamente mutevoli nel tempo, e questo scivolare dei numeri va seguito e tenuto sotto controllo.

Il “quando posso smettere di lavorare” è definito dai requisiti pensionistici e varia da categoria a categoria previdenziale. In linea generale, e prendendo ad esempio il mondo INPS, possiamo stimare la nostra età di inizio pensione attraverso il simulatore “La Mia Pensione”, disponibile sul sito INPS e accessibile con lo SPID. Per avere una idea, chi ha iniziato a lavorare prima del 1 gennaio 1996 potrà confrontarsi con la tabella che segue:

Chi, invece, ha iniziato a contribuire dopo il 1 gennaio 1996 potrà avere alcune indicazioni dalla tabella che segue:

Un punto di attenzione riguarda gli asterischi: ogni cifra indicata, infatti, viene verificata ogni due anni e, se la speranza di vita media cresce, viene adeguata automaticamente a tale crescita. Concretamente, se in un biennio si registra un aumento medio della speranza di vita di 3 mesi, si andrà in pensione 3 mesi dopo e così via. La conseguenza pratica è che il momento futuro di inizio pensione non può essere calcolato con precisione prima, ma solo stimato.

Misurare gli importi attesi

Le misure del tempo sono cruciali, come quelle economiche, che derivano dalla vita che immaginiamo: una pensione passata in viaggio per il mondo richiede una quantità di danaro molto diversa da una passata in casa a riposare. Le pensioni vissute in città, peraltro, costano meno delle pensioni vissute in provincia e così via.

Come destreggiarsi? Innanzitutto immaginando la vita che vogliamo, che non coincide con quanto guadagniamo e spendiamo ora. In secondo luogo, bisogna avere una idea di quanto la previdenza pubblica ci sosterrà. I calcoli delle prestazioni pensionistiche pubbliche non sono complicatissimi. Per equità, la nostra pensione si ottiene sommando tutti i contributi che abbiamo versato in vita e dividendoli per il numero di anni che passeremo in pensione. I numeri che regolano questi rapporti si chiamano coefficienti di trasformazione e, per le età che vanno da 65 a 71, sono i seguenti:

Questo fa sì che i conti siano in equilibrio teorico, anche se di fatto non c’è accantonamento, perché i contributi che versiamo oggi vanno ai pensionati di oggi e non a noi domani.

Facciamo un esempio: se nel corso di una vita i contributi versati ammontano a 400.000 euro (ipotesi di un versamento medio di 10.000 euro l’anno per 40 anni, pari a circa un terzo di un reddito annuo lordo complessivo di 30.000 euro per lavoratori dipendenti), la pensione convertirà questa somma in pensione annua vitalizia in base al numero di anni di speranza di vita media di chi va in pensione . Se si va in pensione a 67 anni di età la pensione annua lorda verrà calcolata come segue:

P = 400.000 € x 5,608% = 22.432 €

Anche qui, vanno fatte alcune considerazioni. La prima è che il nostro esempio è molto teorico, perché nella pratica i redditi in età giovani sono mediamente bassi, e si versano pochi contributi. Il secondo è che anche i coefficienti vengono adeguati ogni due anni, ed abbassati se la speranza di vita cresce. Il terzo elemento di discussione riguarda i contributi: i lavoratori autonomi, ad esempio, versano molto meno di un terzo del proprio reddito (circa un quarto). Infine, va detto che i contributi si rivalutano nel tempo, ma in base al PIL e non all’inflazione.

Questo fa sì che il tasso di crescita applicato, negli ultimi anni, sia molto ridotto. In tutti i casi, sia per INPS che per alcune casse previdenziali di categoria sono disponibili sui siti di appartenenza simulatori che mostrano età pensionabili e importi lordi attesi.

Conclusioni

Prevedere con precisione il futuro è quasi impossibile, ma organizzarsi è essenziale.

Bisogna, quindi, cominciare a identificare il tempo desiderato della pensione, che andrà confrontato con i requisiti della propria posizione previdenziale, e darsi una misura di spese che dovranno essere sostenute grazie ai redditi previdenziali, a partire da quelli della previdenza pubblica. Le misure sono cruciali per non farsi trovare impreparati. Il confronto tra i nostri obiettivi di sicurezza /stabilità e le prestazioni pubbliche delle quali disporremmo in pensione ci darà una misura del problema da risolvere, o al contrario ci evidenzierà che possiamo dormire sonni sereni. In ogni caso, interessarsi del proprio futuro è quasi doveroso.

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