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Gestire l’eredità e dare valore al nostro tempo

Gestire l’eredità e dare valore al nostro tempo

Matusalemme visse 969 anni, noi possiamo ambire al massimo a 120 anni, ma comunque non siamo immortali.

Quando una persona viene a mancare, i suoi cari si trovano ad affrontare in maniera talvolta improvvisa il difficile compito di riprendere in mano le sue cose e di dover decifrare documenti incomprensibili accatastati in vecchi faldoni. Chi ci è passato sa quanto sia doloroso, perché fa riaffiorare i ricordi e genera malinconia.

Prendere in mano le redini della propria vita e scegliere per tempo cosa lasciare, a chi e come, è un atto di premura e di grande rispetto verso le persone a cui teniamo, perché evita loro inutili incombenze in un momento complicato e limita lunghe e costose discussioni tra eredi.

Pensare all’eredità? No, grazie.

Da un punto di vista psicologico, pensare a quel che accadrà dopo di noi risulta particolarmente difficile.

Il motivo è fortemente culturale, dato che in altri Paesi (come ad esempio la Svezia) la messa in ordine di quanto accumulato in vita per evitare incombenze a chi resta è una prassi diffusa.

Noi italiani siamo un popolo superstizioso e tendiamo a rimuovere il pensiero del non esserci, ed è spesso proprio questa rimozione ad impedirci di cogliere i benefici della pianificazione successoria.

Sono infatti ancora pochi gli italiani che scelgono di gestire per tempo il passaggio generazionale. Secondo i dati ufficiali, solo il 12% italiani fa testamento. Le conseguenze sono molte, basti pensare che sono ben 200.000 gli atti giudiziari legati a liti per questione di trasmissione del patrimonio (fonte: Milano Finanza 2023).

Questo significa che non abbiamo ancora compreso del tutto quanto sia importante tutelare i nostri cari, anche sul fronte della successione.

“Prendere in mano le redini della propria eredità e gestire per tempo il passaggio generazionale è un’opportunità per tutelare i nostri cari.”

Chi ha più diritti, e chi non ne ha?

Se una persona viene a mancare senza lasciare testamento, la successione è interamente regolata da norme di legge.

Gli eredi legittimi sono il coniuge, i figli, i genitori, i fratelli e le sorelle e i parenti sino al sesto grado di parentela. Se non vi sono parenti entro il sesto grado l’eredità viene devoluta di diritto allo Stato, che risponderà anche di eventuali debiti.

La legge privilegia le persone che hanno avuto un rapporto di parentela più stretto con il defunto, si segue cioè il cosiddetto principio di gradualità. Ad esempio, nel caso in cui ci sia solo un figlio e un coniuge, i beni verranno divisi a metà. Quando sono invece presenti più figli al coniuge spetterà un terzo del patrimonio, mentre ai figli i restanti due terzi divisi in parti uguali.

Se il defunto non era sposato, allora l’intero patrimonio verrà diviso in parti uguali tra i figli. I fratelli del defunto e gli ascendenti (ossia i genitori, i nonni e così via), potranno quindi diventare eredi soltanto se il defunto non aveva figli.

Ne deriva che non rientrano nella categoria degli eredi legittimi le persone che fanno parte di nuclei familiari nuovi, come ad esempio i conviventi, i «genitori sociali», i «figli sociali» e così via…

Il panorama familiare contemporaneo è però molto denso e variegato e questo ha grosse implicazioni se si sta ragionando di passaggio generazionale.

La quota disponibile: uno strumento importante

Oltre alla quota legittima (vincolata per legge e riservata ai parenti entro il 6°grado) si può disporre di una quota disponibile.

La quota disponibile, definita per legge, corrisponde a quella parte di patrimonio che può essere liberamente destinata a chiunque, indipendentemente dalla presenza o meno di eredi legittimi.

Attraverso l’utilizzo di strumenti coerenti, come assicurazioni vita o testamenti, la legge ci permette di «liberare una quota della successione legittima», variabile in relazione alla numerosità degli eredi legittimi esistenti, per proteggere persone alle quali si è legati, ma che non rientrano nella parentela riconosciuta dalla legge.

“La quota disponibile è quella parte di patrimonio che può essere liberamente destinata a chiunque, indipendentemente dalla presenza o meno di eredi legittimi”

Ragionare sul proprio passaggio generazionale insieme a professionisti del mercato, ci permette di “non lasciare che sia”. In mancanza di interventi specifici, si applica automaticamente la cosiddetta «successione legittima» stabilita dallo Stato.

Pertanto, restare ancorati a superstizioni, o semplicemente procrastinare la decisione, può risultare molto dannoso.

Le imposte di successione: tante o poche? Dipende…

Quando si entra in possesso di un’eredità occorre pagare un’imposta di successione. Questa imposta si applica al valore della quota o dei beni, eccedente una franchigia, definita in base al rapporto di parentela esistente. Anche qui, alla base della tutela c’è la famiglia formalizzata.

Se, ad esempio, l’erede è il coniuge, il figlio o il genitore, l’imposta si applica solo sulla quota che supera la franchigia di 1 milione di euro. Se invece ad entrare in possesso dell’eredità è un fratello o una sorella, la franchigia scende a 100.000 euro. Se infine l’eredità è destinata ad un soggetto portatore di handicap grave, allora la franchigia sale a 1.500.000 euro. Altri eredi, con grado di parentela più distante, non beneficiano di alcuna franchigia.

Oltre alla franchigia, occorre poi considerare l’aliquota. L’importo da pagare si ottiene infatti applicando alla base imponibile, ridotta dell’eventuale franchigia, un’aliquota che varia a seconda del rapporto di parentela esistente: si va dal 4% se gli eredi sono il coniuge, i figli o i genitori, all’ 8% se chi entra in possesso dell’eredità sono soggetti oltre il 4° grado di parentela.

         

Non tutti i beni che si ricevono in eredità sono sottoposti a imposta di successione. A titolo di esempio, sono tassati, il denaro, i gioielli, gli immobili, i beni mobili e i titoli al portatore, le partecipazioni in società, etc. Sono invece esenti da imposta di successione, il TFR, le polizze stipulate dal defunto, i crediti verso lo Stato, gli enti pubblici territoriali e gli enti pubblici che gestiscono forme obbligatorie di previdenza e di assistenza sociale, i titoli del debito pubblico, etc.

In sintesi, in Italia le imposte di successione sono particolarmente generose se rivolte a dei parenti stretti e molto meno se ad entrare in possesso di un bene è, ad esempio, un convivente. È essenziale farsi supportare nell’individuazione degli strumenti adatti a liberare la quota disponibile e a gestire al meglio la fiscalità.

E se si eredita un immobile?

La proprietà immobiliare costituisce la maggior parte della ricchezza delle famiglie italiane. Siamo un popolo di «proprietari di casa» e questa consuetudine fa sì che gran parte delle eredità comprendano case o appartamenti.

Qualora nel trasferimento di beni siano presenti degli immobili, sarà necessario tenere in considerazione due ulteriori imposte: l’imposta ipotecaria (corrispondente al 2% del valore catastale dell’immobile) e l’imposta catastale (pari all’1% del valore dell’immobile).

Se l’immobile ereditato rappresenta una «prima casa», sono previste delle agevolazioni. In questo caso le imposte sono dovute in misura minima e fissa, pari a 200 euro di imposta catastale e 200 euro di imposta ipotecaria.

Conclusioni

Anche se può risultare difficile, l’invito è quello di cominciare a ragionare sul proprio passaggio generazionale e domandarsi se sia più vantaggioso rinviare il ragionamento sulla trasmissione del proprio patrimonio o se invece sia meglio pianificare la propria successione già in vita, assicurandosi che parte dei propri beni vadano a favore delle persone a cui vogliamo bene, siano essi familiari o altri affetti. Solo così sapremo essere dei buoni antenati.

Camillo Venesio premiato da BancaFinanza

Camillo Venesio premiato da BancaFinanza

Camillo Venesio, il nostro Amministratore Delegato e Direttore Generale, nonché VicePresidente Abi è stato premiato da BancaFinanza, la rivista specializzata del settore creditizio e finanziario, in occasione della Cerimonia di premiazione di eccellenze nel settore bancario.

Insieme a lui premiati Antonio Patuelli, Presidente dell’ABI e Gian Maria Gros-Pietro, Vice Presidente Vicario ABI e Presidente di Intesa Sanpaolo.

Il premio è stato assegnato a Camillo Venesio “Per la sua opera a difesa delle banche di territorio”.

Le targhe sono state consegnate dal Direttore di BancaFinanza, Beppe Ghisolfi e dal Professor Gian Luigi Gola.

 

Leggi il Comunicato Stampa

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Conoscere i tassi del debito

Conoscere i tassi del debito

Comprare una casa senza avere disponibilità totale delle risorse, comprare un’auto a rate, distribuire l’acquisto di uno smartphone in tre comodi pagamenti o posticipare l’esborso economico di un viaggio anche dopo averlo fatto: queste soluzioni un tempo non sarebbero state possibili. Oggi grazie a diverse soluzioni di indebitamento possiamo fare molte di queste cose. Tutto questo però ha un costo, più o meno visibile, che si chiama tasso di interesse. Come si valuta e quali impatti ha una sua variazione?

Cosa è il tasso di interesse?

Il vero costo di un prestito o di un mutuo è determinato da un elemento: il tasso d’interesse.

Conoscerlo è essenziale per capire quanto costa, davvero, possedere o usare subito ciò che potremmo ottenere in futuro risparmiando.

Ad esempio, un mutuo da 100.000 euro a 10 anni con un tasso di interesse al 3%, richiede un esborso finale totale di circa 117.000 euro: il 17% in più.

I tassi sono espressi come percentuale del credito ottenuto e del deposito effettuato, con riferimento a un determinato periodo, normalmente un anno. Il tasso di interesse per il creditore, cioè chi presta il denaro, è il guadagno, mentre per il debitore, cioè chi chiede il denaro in prestito, rappresenta un costo.

Quando si contrae un mutuo è semplice capire che stiamo chiedendo in prestito del denaro, ma quando paghiamo a rate un elettrodomestico risulta un po’ più difficile e riteniamo che l’operazione non ci costi nulla, invece, va compreso e ponderato il costo dell’operazione.

Le decisioni delle Banche Centrali influenzano direttamente i tassi di interesse. Se le politiche monetarie favoriscono il credito, i prestiti diventano più accessibili. Tuttavia, in caso di inflazione elevata, i tassi generalmente vengono aumentati dalle Banche Centrali per stabilizzare l’economia.

“Conoscere il tasso di interesse è essenziale per capire quanto costa davvero ciò che potremmo ottenere in futuro, risparmiando.”

Quale tasso valutare quando si chiede un prestito?

Le offerte commerciali spesso propongono “tasso zero” o condizioni agevolate. In realtà, dietro a questi slogan si celano spese accessorie che possono rendere il costo effettivo più alto. In altri casi, il tasso iniziale è promozionale e aumenta dopo i primi mesi. Solo leggendo attentamente le condizioni contrattuali si può capire la vera entità del costo.

Tasso Annuo Nominale (TAN)

È il tasso d’interesse “puro”, espresso su base annua, che viene applicato al capitale prestato. Non tiene conto delle spese accessorie. È spesso il tasso messo in evidenza nelle pubblicità, perché è più basso del TAEG e quindi più “accattivante”.

Tasso annuo effettivo globale (TAEG)

Per il debitore è il costo totale di un’operazione di finanziamento che tiene conto non solo degli interessi sul prestito, ma anche di tutti gli oneri relativi al contratto di credito. Il TAEG è un indicatore sintetico di costo molto importante ai fini della trasparenza delle condizioni contrattuali applicate dagli istituti di credito, in quanto permette al debitore una facile comparazione tra i differenti servizi di finanziamento offerti. Questo è il tasso da cercare nella documentazione e quindi confrontare per capire il costo totale dell’operazione.

Infine, ogni regione ha un valore medio di tasso diverso che dipende dalla rischiosità della clientela e dai costi che ogni istituto attribuisce all’operazione.

Riconoscere il tasso effettivo dell’operazione (TAEG) di prestito (mutuo o finanziamento) è il primo passo per poter confrontare diverse alternative e scegliere in maniera avveduta.

Tasso usura: un limite di legge da conoscere

Il tasso usura è l’interesse oltre il limite legale. La legge fissa un tasso soglia, oltre il quale un prestito è considerato usurario. Questo limite si calcola sul tasso medio applicato dalle banche, rilevato trimestralmente dalla Banca d’Italia.

Un interesse superiore a tale soglia, aumentato di un quarto più un margine massimo del 4%, può configurare il reato di usura. Le vittime possono agire legalmente, ma devono dimostrare l’effettiva applicazione del tasso illecito. Per esempio al 31 marzo 2025, Banca d’Italia ha rilevato che il tasso fisso erogato mediamente dalle banche era pari a 3.39%. Quindi la soglia di usura è stata fissata pari a 8.2375%. Il tasso variabile erogato mediamente dalle banche è invece stato pari a 5.21% e quindi la relativa soglia di usura è stata fissata 10.5125% (Fonte: Banca d’Italia – tassi di interesse).

“Le vittime d’un tasso di usura possono agire legalmente, ma devono dimostrare l’effettiva applicazione del tasso illecito”

Conoscere il limite oltre cui un tasso diventa illegale non è solo una nozione tecnica: è uno strumento di autodifesa, un confine che separa il diritto dal sopruso e rende più consapevoli le nostre scelte finanziarie.

Tasso fisso o tasso variabile? L’eterno dilemma

Quando si accende un mutuo, una delle scelte più importanti da compiere riguarda il tipo di tasso di interesse che il mutuo avrà: fisso o variabile. Questa decisione ha un impatto diretto sulla rata mensile, sulla stabilità dei pagamenti e sul costo totale del finanziamento. Capire bene cosa cambia tra le due opzioni è fondamentale per fare una scelta consapevole.

Il tasso fisso garantisce che la rata del mutuo resti sempre uguale per tutta la durata del prestito. Non importa cosa accade ai mercati o alle politiche della Banca Centrale: la cifra da pagare ogni mese non cambia. È la scelta ideale per chi desidera sicurezza e non avere sorprese. Il rovescio della medaglia è che, di solito, il tasso fisso è più alto di quello variabile al momento della stipula.

Il tasso variabile, invece, segue l’andamento dei tassi di mercato (come l’Euribor). Questo significa che la rata può cambiare nel tempo: può scendere, rendendo il mutuo più economico, ma può anche salire, mettendo a rischio la sostenibilità dell’impegno. È una soluzione adatta a chi ha una buona capacità di spesa e vuole scommettere su un andamento stabile o calante dei tassi.

Facciamo un esempio concreto. Immaginiamo un mutuo da 150.000 euro da restituire in 20 anni con tasso fisso al 3,2%, la rata sarà di circa 849 euro al mese per tutta la durata. Il totale restituito sarà circa 203.760 euro.

Con tasso variabile all’1,9% iniziale, la rata iniziale sarà di circa 754 euro. Ma se nel tempo il tasso salisse fino al 4%, la rata potrebbe arrivare a 908 euro, aumentando l’esborso totale a oltre 217.000 euro. Come si vede, il tasso variabile può essere più conveniente all’inizio, ma porta con sé un rischio.

         

La scelta dipende dal profilo personale: chi preferisce la tranquillità, sceglie il fisso. Chi ha margini di bilancio più ampi e segue l’evoluzione dei mercati, potrebbe valutare il variabile. In ogni caso, è una decisione da prendere valutando in particolar modo le proprie possibilità future.

Da cosa dipendono i tassi del mutuo?

Il tasso di un mutuo dipende da diversi fattori, quelli principali sono:
–  mercato: i tassi BCE sono il riferimento principale;
–  durata: prestiti più lunghi implicano più rischio per la banca;
–  profilo del cliente: stabilità economica e storia creditizia influiscono sulle condizioni applicate;
–  finalità: i mutui per la casa hanno condizioni più favorevoli rispetto ai prestiti per consumi, grazie alla presenza di un’ipoteca sull’immobile;
–  spread: la percentuale di guadagno di chi concede il credito, da aggiungere al tasso

Ma quanto pesa sul conto familiare, la variazione di un punto percentuale? Un mutuo da 100.000 euro a 10 anni con tasso al 3% ha una rata di 977 euro. Con un tasso al 4%, la rata diventa 1.027 euro: oltre 6.000 euro in più da pagare durante tutta la vita del mutuo.

Comprendere quanto incide anche una piccola variazione di tasso è fondamentale per scegliere consapevolmente se è meglio optare per un mutuo a tasso fisso o a tasso variabile.

Conclusioni

Ogni prestito ha un costo, più o meno facilmente riconoscibile, che può incidere in modo significativo sul bilancio familiare.

Saper distinguere tra TAN e TAEG, conoscere il limite del tasso usura e valutare la differenza tra tasso fisso e variabile significa proteggersi da scelte sbagliate o troppo rischiose. Nessuna decisione finanziaria dovrebbe essere presa alla leggera, tanto meno quando si tratta di indebitarsi. Conoscere i tassi è il primo passo per scegliere, non subire e costruire un rapporto sano e sostenibile con il credito.

Banca del Piemonte e Seven Springs alla Scuola Holden: un viaggio tra musica, cultura e convivialità

Banca del Piemonte e Seven Springs alla Scuola Holden: un viaggio tra musica, cultura e convivialità

La Scuola Holden di Torino si trasforma ancora una volta in un palcoscenico di emozioni e condivisione grazie a Seven Springs | Il suono della Holden, un evento che unisce musica, arte e incontri culturali in un’atmosfera unica.

Un momento speciale sarà il grande finale all’aperto con Una Traviata da cortile, presentato da Alessandro Baricco e da Domenico Procacci in collaborazione con Lingotto Musica, Andrea Bocelli Foundation Ente Filantropico e Banca del Piemonte.

Il supporto di Banca del Piemonte, insieme a quello di altri partner di rilievo, testimonia il suo impegno nel promuovere la cultura e il talento nel territorio torinese. La Banca si conferma così partner attivo di un progetto che valorizza la creatività, l’innovazione e il senso di comunità, contribuendo a rendere Torino un punto di riferimento per l’arte e la musica.

 

Messaggio pubblicitario con finalità promozionale.

La nostra previdenza pubblica: per chi, quando, quanto

La nostra previdenza pubblica: per chi, quando, quanto

La pensione è un pensiero strano, che da un lato ci attrae e dall’altro ci spaventa. Il timore, generale, è quello di dover fare attenzione alle piccole e grandi spese, perché i soldi non saranno sufficienti.

In questo quadro, dovremmo almeno fare i conti con le nostre pensioni pubbliche, ma anche questo ci è difficile, perché ci è stato spiegato che le logiche sono complicate, i conti non tornano e così via.

In realtà, i conti tornano ma è altrettanto vero che le pensioni pubbliche sono poco adeguate alla qualità della vita che vorremmo. La previdenza funziona in maniera semplice e la pensione di ognuno di noi dipenderà da quanti contributi versiamo e verseremo. Se lavoriamo per tanto tempo o con redditi alti avremo pensioni sostanziose, diversamente accumuleremo pochi contributi previdenziali.

Il problema è che, seppur versiamo “tanto”, la durata dei versamenti è di poco inferiore al tempo di vita, lunghissimo, che passeremo in pensione. In teoria, dovremmo versare ancor di più ma questo abbasserebbe redditi già poco eclatanti e quindi?

Ministoria

La pensione è un concetto abbastanza recente, della fine del XIX secolo. Nasce a capitalizzazione: ognuno versa per sé e per il suo futuro. Le riserve future dei pensionati vennero tuttavia distrutte dall’inflazione della seconda guerra mondiale e 1000 lire, in nove anni, si ridussero, in termini di potere d’acquisto, a 22. In un Paese che esce malconcio dalla guerra, ma che è pieno di giovani e povero di pensionati, è naturale pensare che si possa risolvere il problema passando da “ognuno versa per sé” a un patto generazionale nel quale tanti giovani versano soldi per pochi anziani.

Ora le cose sono cambiate, abbiamo pochi giovani e molti anziani e non c’è riserva ma ripartizione. I soldi di chi lavora pagano, quasi “in diretta” le pensioni. I calcoli, tuttavia, rimangono “personali” (anche se come abbiamo visto la cassa non c’è). Di conseguenza, ciascuno avrà indietro una pensione corretta rispetto a quanto ha versato ma… la avremo davvero tutti? E quando? E come capire se sarà sufficiente?

“Siamo passati da ‘ognuno versa per sé’ a un patto generazionale nel quale tanti giovani versano soldi per pochi anziani”

Per chi, perchè

Il fatto che ognuno avrà una pensione che deriva dai versamenti ci dice che la pensione è un beneficio per chi ha lavorato e non per tutti. Chi non ha lavorato, o non a sufficienza, non ha pertanto diritto alla pensione ma solo, in caso di necessità, ad assegni di inclusione o redditi assistenziali.

La buona notizia, tuttavia, è che ogni lavoro prevede il versamento di contributi, e quindi ciascun lavoratore matura contributi previdenziali. La gran parte di questi contributi confluisce in INPS ma ci sono diverse casse professionali, relative a categorie diverse dal lavoro dipendente, artigianale o commerciante. Ogni categoria che si è dotata di una propria cassa previdenziale ha regole proprie, ma oramai tendenzialmente tutti i sistemi stanno confluendo verso modelli simili: ciascuno versa contributi, ed al termine del lavoro questi si trasformeranno in pensioni in maniera equa.

Di seguito faremo riferimento al mondo INPS. La possibilità di andare in pensione di solito è legata all’età, ma anche al numero di anni di versamenti. Tipicamente, ciascuno esamina la propria situazione per capire se si può andare in pensione di vecchiaia o in pensione anticipata. La pensione di vecchiaia si raggiunge ad una data età purché si sia versato per un certo numero di anni. La pensione anticipata, diversamente, non considera le età ma solo i versamenti, ancora differenziati per genere.

Questo è il criterio generale, che tuttavia varia in funzione dell’inizio del lavoro. La data che distingue i requisiti è il 1 gennaio 1996. Chi già lavorava avrà alcune possibilità, chi ha iniziato a lavorare dopo quella data ha un sistema un po’ diverso.

Requisiti per meno giovani

Chi ha iniziato a lavorare (più precisamente, a versare) prima della fine del 1995 può andare in pensione di vecchiaia a 67 anni con 20 anni di contribuzione o in pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi se uomo e 41 anni e 10 mesi se donna.

Entrambi i requisiti sono mobili, nel senso che vengono aggiornati ogni due anni in funzione dell’allungamento della speranza di vita. In pratica, se la vita media si allunga di 3 mesi, l’età della pensione si sposterà in avanti di 3 mesi e così via. Se il numero di anni di versamenti non è sufficiente per conseguire il diritto, ci sono due possibilità: riscattare gli anni di laurea se la si è conseguita o proseguire i versamenti anche dopo la fine del lavoro, in maniera volontaria.

Requisiti per più giovani

Chi ha iniziato a lavorare (più precisamente, a versare) dopo la fine del 1995 può andare in pensione di vecchiaia a 67 anni con 20 anni di contribuzione o in pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi di contribuzione se uomo e 41 anni e 10 mesi di contribuzione se donna. C’è però una ulteriore possibilità, che consiste nell’andare in pensione a 64 anni a condizione che si sia versato per almeno 25 anni e il calcolo della pensione sia almeno pari a 3 volte l’assegno sociale, ossia a 1.616 euro al mese.

Per agevolare questa possibilità, il calcolo della pensione comprende anche le pensioni complementari, quelle che potremmo avere se sottoscriviamo un fondo pensione. Anche in questo caso i requisiti sono mobili, nel senso che vengono aggiornati ogni due anni in funzione dell’allungamento della speranza di vita, ed anche qui se il numero di anni di versamenti non è sufficiente si può riscattare la laurea o proseguire i versamenti. C’è tuttavia una terza possibilità, ed è quella di maturare un importo complessivo tra previdenza pubblica e complementare che consenta di smettere di lavorare prima.

Se non si raggiungono i requisiti pensionistici “standard” bisogna aspettare 71 anni. In quel caso gli anni di contribuzione necessari sono solamente 5.

Le uscite di sicurezza

È strano dirlo, ma in Italia oltre ai sistemi di regole ci sono, spesso, possibilità temporanee di anticipare le età della pensione. Le più note sono Opzione Donna e Quota 103. Queste possibilità consentono di andare in pensione prima del dovuto, ma non in maniera “gratuita”. Ogni possibilità di andare in pensione “prima del dovuto” prevede, infatti, penalizzazioni negli importi o sistemi di calcolo che, a conti fatti, risultano poco convenienti, a meno che l’anticipo non sia così essenziale o necessario da pagarne un prezzo. Ognuno, naturalmente, deve valutare soggettivamente il costo di rimanere al lavoro o disporre di maggiore tempo per sé e le proprie passioni. Prima di fare scelte, tuttavia, sarebbe bene simulare con precisione la diminuzione dell’assegno pensionistico.

“Ognuno, naturalmente, deve valutare soggettivamente il costo di rimanere al lavoro o disporre di maggiore tempo per sé e le proprie passioni”

Qualche calcolo

Inutile negarlo: siamo generalmente affaticati, e l’idea di lasciare il lavoro e dedicarci alle persone che amiamo ed alle nostre passioni spesso è più attrattiva di quella di continuare a lavorare. Tuttavia, il numero di anni che passeremo in pensione è così elevato che prima di smettere di lavorare è necessario fare qualche calcolo per capire se quello che si avrà ci consentirà la vita che desideriamo.

I calcoli sull’importo pensionistico, nella realtà, si possono fare in maniera esatta solo alla fine del lavoro. Prima si possono, tuttavia, fare ipotesi accurate per indirizzare le proprie traiettorie verso la stabilità prima che sia troppo tardi. In tutti i casi, le logiche di calcolo sono molto semplici: i nostri contributi, obbligatori, che nei fatti vengono usati per pagare i pensionati di oggi, contabilmente generano un capitale, che si chiama montante contributivo. Per dare ad ognuno di noi una pensione equa, INPS divide questo capitale per il numero di anni medi che passeremo in pensione e ottiene una rendita, che ci verrà pagata mese per mese finché vivremo.

La tabella mostra l’esito di questa operazione. Tecnicamente, INPS pubblica divisori che rappresentano proprio il numero di anni nel quale ci si attende di pagare l’assegno a chi va in pensione alle età indicate. Ad esempio: il coefficiente 5,250% riferito ad un 65enne, significa che INPS stima di pagare la sua pensione per 19,04 anni. Dividendo il capitale maturato dai contributi per questa cifra, il nostro 65enne avrà indietro una pensione equa per lui e che non mette in crisi i conti del sistema.

Qual è tuttavia il risultato concreto di tutti questi meccanismi, regole, evidenze? Vale la pena di tradurre le regole in numeri, e di farci una idea di quel che potrà accaderci. Le tabelle che seguono indicano quanta pensione possiamo attenderci in percentuale sull’ultimo reddito.

Che fare?

La prima indicazione che ci sentiamo di dare è di non considerare i versamenti pubblici come un obbligo sgradito, ma come benzina per costruire un domani che sarà insufficiente ma comunque c’è.

È in ogni caso evidente che i calcoli saranno equi in termini aritmetici ma non consentono una vita qualitativamente prospera e serena. Quindi, e senza indugio, è bene dedicare parte del proprio risparmio alla costruzione di un futuro pensionistico più stabile, utilizzando le forme e gli strumenti messi a disposizione dal mercato finanziario e previdenziale. Inoltre:

  1. Interessatevi della vostra situazione, visitate i siti della vostra cassa previdenziale pubblica, scaricate i vostri estratti conto contributivi, simulate tempi ed importi
  2. Valutate l’adeguatezza degli importi alla vostra situazione attuale ed a quella desiderata, valutando, conti alla mano, che vita potreste fare con quelle somme mensili e ragionando sulla propria autonomia e indipendenza finanziaria. Non è infatti né giusto né rassicurante dover dipendere per tanti anni dai supporti del coniuge, dei figli, delle assistenze pubbliche
  3. Se l’esito delle valutazioni non è rassicurante, pensate, da subito, alle strategie più adeguate per fare fronte ad una longevità che non può essere subita, ma va preparata con cura

 

Le uscite di sicurezza

È strano dirlo, ma in Italia oltre ai sistemi di regole ci sono, spesso, possibilità temporanee di anticipare le età della pensione. Le più note sono Opzione Donna e Quota 103. Queste possibilità consentono di andare in pensione prima del dovuto, ma non in maniera “gratuita”. Ogni possibilità di andare in pensione “prima del dovuto” prevede, infatti, penalizzazioni negli importi o sistemi di calcolo che, a conti fatti, risultano poco convenienti, a meno che l’anticipo non sia così essenziale o necessario da pagarne un prezzo. Ognuno, naturalmente, deve valutare soggettivamente il costo di rimanere al lavoro o disporre di maggiore tempo per sé e le proprie passioni. Prima di fare scelte, tuttavia, sarebbe bene simulare con precisione la diminuzione dell’assegno pensionistico.

“È bene dedicare parte del proprio risparmio alla costruzione di un futuro pensionistico più stabile”

Conclusioni

Le prestazioni offerte dal sistema pensionistico italiano sono eque, ma potrebbero non bastare o potremmo non averne diritto. Per questo andrebbero integrate con strumenti previdenziali adeguati e capaci di metterci al sicuro di fronte a un nuovo grande rischio della vita: quello di vivere più a lungo dei propri soldi.

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