da g.zucchetti | 9 Giu, 2025 | Educazione Finanziaria
L’ingresso all’Università rappresenta una delle tappe più significative nella vita di uno studente. È anche uno degli investimenti economici più importanti per una famiglia. Durante l’iter scolastico dell’obbligo spesso si dà per scontato che “qualcosa si troverà” oppure con un “ci penseremo” si risolve la questione. In realtà l’Università ha un costo che cresce negli anni e sostenerla serenamente, o con difficoltà, dipende da quanto si è pianificata la spesa in anticipo.
L’apprendimento è un tesoro che seguirà il suo proprietario ovunque. – Proverbio cinese.
Perché pianificare le spese universitarie
Il 60% degli italiani (Ricerca di Kruk Italia sugli studenti universitari – 2024) ha dichiarato di essere pronto a fare delle rinunce per permettere ai figli di studiare perché lo ritiene un investimento necessario per assicurare un buon futuro. Queste risposte ci fanno pensare subito ad una buona lungimiranza, infatti, l’economista Jacob Mincer è famoso per aver trovato una relazione diretta tra redditi lavorativi e anni di istruzione, laddove ogni anno aggiuntivo di istruzione produce in media un aumento percentuale del reddito tra 8% e 10%.
Certamente ci sono altri fattori, come le abilità personali, la rete di relazioni, il caso, ma certamente la variabile che possiamo controllare maggiormente è l’istruzione.
Il tasso di occupazione per i laureati tra i 25 e i 64 anni è del 79,2%, mentre per i diplomati è del 65,2% (Education at a Glance 2022). A tre anni dalla laurea, il 77.1% dei laureati è occupato e dopo cinque anni si arriva a circa 89% (AlmaLaurea – XXV Indagine Condizione occupazionale dei Laureati – 2023). Inoltre, chi ha frequentato gli studi universitari ha una maggiore probabilità di rimanere attivo nel mercato del lavoro in età adulta (A.Stenberg, A., & Westerlund, O. -2013-. Education and retirement: does University education at mid-age extend working life? IZA Journal of European Labor Studies).
I dati oggettivi e i buoni propositi dei genitori italiani fanno ben sperare, tuttavia soltanto l’11% delle persone dice di avere cominciato a risparmiare in anticipo per questo investimento: 8% ha iniziato dalla prima infanzia e il 3% dall’adolescenza.

Quanto costa l’Università
Ogni due anni, il Censis stila una graduatoria delle migliori Università italiane. Secondo il rapporto più recente risultano essere le migliori università statali quella di Padova, Bologna e Roma La Sapienza (La classifica Censis delle Università italiane -edizione 2024/2025-). Tra quelle non statali, spicca, la Luiss di Roma, la Bocconi e la Cattolica a Milano. La graduatoria è stilata in base ad una serie di elementi, come i servizi offerti, le borse di studio, le strutture e la internazionalizzazione.
Tuttavia, la scelta dell’università non passa solo per il ranking ma anche e soprattutto dal costo della retta. Gli studenti iscritti agli atenei pubblici pagano rette che in media sono di 950 euro (Unione Universitari 2024) annui, mentre per gli atenei privati si arriva ad una media di 3.408 euro annui. I fattori che incidono sulla retta finale sono, l’ISEE familiare, la tipologia di corso, la regione, il tipo di ateneo e se lo studente è fuori corso.
Un’altra voce di spesa da considerare è quella dell’affitto, nel caso si decida di frequentare l’Università in una città differente da quella dove si risiede, il cosiddetto “fuorisede”. Milano, Bologna, Roma e Napoli sono i luoghi in cui le case per studenti costano di più. Nel capoluogo lombardo, una “singola” stanza viene affittata in media a 637 euro e una stanza condivisa costa mediamente 353 euro (Immobiliare.it 2025). In media, nelle maggiori città universitarie, una stanza costa 460 euro al mese (5.518 euro annui).

I costi annuali per sostenere le spese universitarie di un figlio sono importanti e abbracciano dai 3 ai 5 anni, nella migliore delle ipotesi. Se i genitori reputano la laurea un obiettivo importante, è necessario preparare questo obiettivo in largo anticipo, affinché il tempo possa diventare un importante alleato.
I costi nascosti
Molte famiglie si concentrano sulle rette universitarie, ma spesso trascurano altri costi che incidono in modo significativo, come:
– Depositi cauzionali, utenze, spese condominiali
– Trasporti (abbonamenti ferroviari o mezzi pubblici)
– Attrezzature tecnologiche (computer, software, connessione internet)
– Spese per soggiorni all’estero o Erasmus
Inoltre, più si va avanti con gli studi (master, dottorati, specializzazioni), più i costi aumentano. Una voce spesso sottovalutata è quella per gli spostamenti, per il cibo e in particolar modo quello per il materiale didattico. In generale, il costo medio complessivo del materiale didattico è stimato intorno ai 1.600 euro annui (8 Udu e Federconsumatori 2023).
In conclusione, secondo uno studio di Federconsumatori (Anno 2023) , il costo medio annuo per mantenere un figlio all’università è pari a:
– 379 euro se studia nella città di residenza
– 293 euro se è pendolare
– 498 euro se è studente fuorisede
Forse anche per questi motivi, Istat rileva che in Italia siamo ancora sotto la media europea in termini di laureati: solo il 26.8% ha il titolo di studio terziario (laurea) rispetto alla media UE27 pari al 41.6% (livelli di istruzione e ritorni occupazionali – istat 2021).

Italia o estero?
Inutile girarci intorno, all’estero, si può avere un’esperienza più internazionale, una maggiore flessibilità nello studio e potenzialmente più opportunità di lavoro dopo la laurea. A livello internazionale, i laureati in discipline STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) mostrano tassi di occupazione trai più elevati. A un anno dalla laurea, i laureati che lavorano all’estero percepiscono circa 2.174 euro mensili netti, contro i 1.393 euro di chi è in Italia.
A cinque anni dalla laurea, la differenza aumenta ulteriormente, con i laureati all’estero che guadagnano circa 2.710 euro al mese, mentre in Italia si resta sui 1.708 euro. Non a caso, 2 laureati all’estero su 3 non intendono rientrare in Italia. I costi per sostenere l’Università all’estero sono molto differenti da nazione a nazione e da città a città. Ecco qualche esempio delle rette annuali, dalle più costose (private) a quelle meno costose (pubbliche europee):
– Harvard negli Stati Uniti: 85.000 euro
– Massachusetts Institute of Technology (MIT): da 50.000 euro a 80.000 euro
– Stanford University: 50.000 euro
– Cambridge: da 6.000 euro a 30.000 euro
– Università di Barcellona (UB): fino a 1.300 euro
– Università Sorbona a Parigi: fino a 600 euro
“A livello internazionale, i laureati in discipline STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) mostrano tassi di occupazione tra i più elevati.”
Tutti vorremmo avere figli o nipoti laureati nei più prestigiosi atenei del mondo, ma servono risorse importanti a disposizione. La soluzione migliore è quella di darsi un obiettivo ragionevole e perseguirlo con un risparmio costante periodico e tarato sull’obiettivo da raggiungere.
Come prepararsi
Ipotizziamo di avere un figlio di 8 anni e di avere quindi 10 anni di tempo prima di sborsare il primo anno di costi per frequentare l’Università come pendolare, in Italia. La tabella mostra come all’aumentare del tempo a disposizione, minore è il risparmio che è necessario accantonare ogni mese: le spese del 14° anno vengono accumulate in un tempo maggiore rispetto a quelle del 11° anno.

Per una famiglia con un figlio di 8 anni, risparmiare 277 euro al mese può essere un obiettivo molto più accessibile rispetto a dover sborsare 858 euro al mese tra 10 anni (equivalenti a 10.293 euro divisi in 12 mesi). In questo modulo, ci limitiamo a ragionare di risparmio, ma rimandiamo alla trattazione dell’approfondimento sul tema di investimento per comprendere come rendere il risparmio più profittevole nei limiti della personale sopportabilità al rischio.
Conclusioni
Investire sull’istruzione significa investire sul futuro. Non tutti i costi possono essere previsti, ma molti possono essere preparati. Pianificare le spese universitarie significa evitare sorprese, dare serenità a tutta la famiglia e aumentare le opportunità di successo per chi amiamo. Offrire la possibilità di studiare senza complicazioni è il dono più prezioso che si possa trasferire ai propri figli o nipoti. Perché l’educazione è il bene più durevole che si possa trasmettere.
da g.zucchetti | 26 Mag, 2025 | Educazione Finanziaria
La decisione di fare un figlio è una scelta personale che coinvolge una valutazione ponderata di fattori biologici, psicologici, sociali ed economici. La ragione si mischia con le emozioni e con il desiderio di genitorialità. Ma che sia programmato o meno, che sia un figlio o un nipote, in tutti i casi vale la pena valutare le conseguenze per prepararsi in modo adeguato.
Tre cose ci sono rimaste del paradiso: le stelle, i fiori e i bambini (Dante Alighieri).
Cosa significa l’arrivo di un figlio?
L’arrivo di un figlio è un evento sempre più raro. Negli ultimi 15 anni c’è stato un calo dei nascituri del 30%, infatti nell’ultimo censimento di Istat nel 2023 sono stati registrati 379.890 nascituri. In pratica ci sono circa 6 nascite ogni 1000 abitanti. La gioia di avere un figlio è enorme per tutte le persone coinvolte, in particolar modo nel primo anno di vita (Clark et al., 2008; Myers, 2000) e in età avanzata, perché sono un fattore protettivo e arricchente per il benessere soggettivo (Myrskylä & Margolis, 2014.).
Con l’arrivo di un figlio, in particolare il primo, si crea uno specchio che stimola riflessioni su sé stessi, i propri valori, il proprio passato. Tanto che il 37% degli adulti desidererebbero avere più figli (US Adult Sexual Behaviors and Attitudes study, 2021). Soltanto il 29% degli adulti non vorrebbe un figlio, laddove secondo una ricerca del 2023 (Pew Research Center), i principali 3 motivi per cui le coppie non intendono avere figli, risultano essere: la priorità alla carriera (44%), la preoccupazione per lo stato del mondo (38%) e il fatto di non potersi permettersi di crescere i figli (36%).
Gli eventi che si collocano in un futuro, più o meno lontano, vanno preparati da un punto di vista economico sia per i genitori che per i nonni, o gli zii, che sempre più spesso si trovano coinvolti in questo evento speciale.

Che sia più o meno programmato quello che spinge ad avere un figlio è, nella maggior parte delle volte, un desiderio forte di genitorialità che irrompe nella psiche degli adulti.
Quali impatti economici?
La nascita di un figlio è un evento intensamente emotivo. Ma andando ad analizzare gli aspetti economico finanziari, avere un figlio ha un impatto economico importante. Si stima (Istat) che l’entrata in famiglia del primo figlio faccia aumentare i consumi del 34%. Il secondo figlio aumenta i consumi del 22%, il terzo del 16%. Quindi due genitori che spendono 3.000 euro al mese, con l’arrivo del primo figlio andranno a spendere 4.020 euro al mese (il 34% in più).
Aumentano le spese di cibo, vestiti, scuola, sanità e tempo libero. In media, il costo che sostiene una famiglia italiana alla nascita di un figlio varia tra 7.431 euro e 17.586 euro nel primo anno di vita. Naturalmente l’impegno economico dipende dalle disponibilità reddituali e, si noti che in periodi di crisi economica, i genitori tendono a ridurre diverse spese familiari tranne quelle per i figli. Talvolta si riduce il reddito disponibile quando uno dei due genitori riduce l’orario di lavoro per dedicarsi alla cura del nascituro o addirittura lascia il lavoro.

Gli impatti economici legati alla crescita di un figlio sono significativi. Quantificarli non serve a scoraggiare la genitorialità, ma a consentire una pianificazione consapevole, dando priorità alle spese più rilevanti per il benessere familiare.
Cosa organizzare per il futuro dei figli?
L’arrivo di un figlio non ha solo un impatto sul futuro prossimo, sulle notti insonni, sui pannolini da comprare e sulle visite mediche da prenotare. Ma ha un impatto economico sui successivi 32 anni, se figlio femmina, e sui successivi 34 anni, se figlio maschio. Questi sono i tempi medi di dipendenza economica dai genitori.
Immaginare di aiutare i propri figli a realizzare un obiettivo, come ad esempio l’acquisto di una casa, un viaggio all’estero o l’avvio di un’attività, aiuta a creare una forte motivazione al risparmio. La propensione al risparmio delle famiglie che hanno figli, nonostante l’aumento dei consumi, è maggiore rispetto ai single o alle coppie senza figli. Per fare un esempio concreto di obiettivo, un periodo di studio all’estero può andare da 2 settimane ad 1 anno intero, e richiedere un esborso che passa da circa 2.000 euro fino a 30.000.
“Immaginare di aiutare i propri figli a realizzare un obiettivo, aiuta a creare una forte motivazione al risparmio.”
Pianificare finanziariamente il futuro significa immaginare quello che vorremmo accadesse di positivo per i propri figli e agire oggi per aumentare le probabilità di realizzarlo. Il poeta greco Esiodo disse “Se aggiungi poco al poco, ma lo farai di frequente, presto il poco diventerà molto”.
Crescere un figlio fino alla maggiore età
Crescere un figlio fino ai 18 anni rappresenta un impegno economico significativo per le famiglie italiane. Secondo l’Osservatorio Nazionale Federconsumatori, il costo medio per mantenere un figlio da 0 a 18 anni si aggira intorno ai 175.642 euro (118.234 euro per i redditi più bassi e 321.617 euro per chi riceve alti redditi). Questa cifra comprende spese per alimentazione, abbigliamento, istruzione, salute, trasporti e attività ricreative.

Nella fascia d’età 12-18 anni, le spese aumentano ulteriormente per includere corsi di lingua, abbigliamento, vacanze, dispositivi elettronici e libri scolastici. È importante notare che questi costi non includono le spese per l’istruzione universitaria, alle quali dedicheremo un articolo specifico.
Oggi una coppia senza figli, risparmia in media circa 4.942 euro al mese (Istat 2023), quindi a parità di comportamenti, collocandosi sui valori prudenziali, se dovessero avere un figlio, nel periodo tra 12 e 18 anni faticherebbero a coprire i costi durante la scuola secondaria. Un detto partenopeo ci ricorda che “dove mangiano due persone, mangiano anche tre persone”, ma questa scorciatoia mentale non ci esonera dal compiere oggi piccole scelte responsabili di risparmio che producano i loro maggiori effetti nel futuro nostro e quello dei nostri cari.
Pianificare per tempo le spese future, significa poter avere a disposizione una mappa dei criteri di scelta del presente con i migliori effetti sul futuro.
Come risparmiare oggi per il domani
Vediamo insieme quali sono i passi per pianificare e organizzare quanto risparmiare per obiettivi importanti come l’istruzione del proprio figlio o nipote.
– Il primo passo è stabilire obiettivi chiari e realistici: coprire le spese di istruzione dei figli, aiutarli nella realizzazione di un progetto o dotarli di un fondo di emergenza.
– Collocare gli obiettivi su di un orizzonte temporale, poiché questo elemento ci permette di capire quanto oggi dovremmo accantonare e con quale frequenza, al fine di avere buone probabilità di raggiungerli.
– Valutare quante risorse sono già state accumulate per raggiungere quell’obiettivo di spesa.
– Calcolare quanto manca al raggiungimento completo dell’obiettivo.
– Determinare quanto è necessario risparmiare mensilmente per poter raggiungere quell’obiettivo.
– Automatizzare i risparmi, ad esempio tramite bonifici periodici su un conto dedicato, facilita l’accantonamento costante.
– Monitorare nel tempo la spesa obiettivo, le priorità, il risparmio ideale e quello effettivamente realizzato.

In questo modulo, ci limitiamo a ragionare di risparmio e rimandiamo alla trattazione dell’approfondimento sul tema di investimento per comprendere come rendere il risparmio più profittevole nei limiti della personale sopportabilità al rischio.
Conclusioni
La nascita e la crescita di un figlio rappresentano obiettivi familiari di grandissima rilevanza. Gli adulti che hanno figli indicano tra le prime motivazioni al risparmio quella di assicurare il futuro dei propri figli. Per questo motivo, riflettere sugli impatti economici e pianificare le azioni da compiere per massimizzare la probabilità di raggiungere gli obiettivi prefissati è un atto di responsabilità genitoriale e un gesto d’amore verso chi non è ancora economicamente indipendente.
da g.zucchetti | 19 Mag, 2025 | Educazione Finanziaria
Matusalemme visse 969 anni, noi possiamo ambire al massimo a 120 anni, ma comunque non siamo immortali.
Quando una persona viene a mancare, i suoi cari si trovano ad affrontare in maniera talvolta improvvisa il difficile compito di riprendere in mano le sue cose e di dover decifrare documenti incomprensibili accatastati in vecchi faldoni. Chi ci è passato sa quanto sia doloroso, perché fa riaffiorare i ricordi e genera malinconia.
Prendere in mano le redini della propria vita e scegliere per tempo cosa lasciare, a chi e come, è un atto di premura e di grande rispetto verso le persone a cui teniamo, perché evita loro inutili incombenze in un momento complicato e limita lunghe e costose discussioni tra eredi.
Pensare all’eredità? No, grazie.
Da un punto di vista psicologico, pensare a quel che accadrà dopo di noi risulta particolarmente difficile.
Il motivo è fortemente culturale, dato che in altri Paesi (come ad esempio la Svezia) la messa in ordine di quanto accumulato in vita per evitare incombenze a chi resta è una prassi diffusa.
Noi italiani siamo un popolo superstizioso e tendiamo a rimuovere il pensiero del non esserci, ed è spesso proprio questa rimozione ad impedirci di cogliere i benefici della pianificazione successoria.
Sono infatti ancora pochi gli italiani che scelgono di gestire per tempo il passaggio generazionale. Secondo i dati ufficiali, solo il 12% italiani fa testamento. Le conseguenze sono molte, basti pensare che sono ben 200.000 gli atti giudiziari legati a liti per questione di trasmissione del patrimonio (fonte: Milano Finanza 2023).
Questo significa che non abbiamo ancora compreso del tutto quanto sia importante tutelare i nostri cari, anche sul fronte della successione.
“Prendere in mano le redini della propria eredità e gestire per tempo il passaggio generazionale è un’opportunità per tutelare i nostri cari.”
Chi ha più diritti, e chi non ne ha?
Se una persona viene a mancare senza lasciare testamento, la successione è interamente regolata da norme di legge.
Gli eredi legittimi sono il coniuge, i figli, i genitori, i fratelli e le sorelle e i parenti sino al sesto grado di parentela. Se non vi sono parenti entro il sesto grado l’eredità viene devoluta di diritto allo Stato, che risponderà anche di eventuali debiti.
La legge privilegia le persone che hanno avuto un rapporto di parentela più stretto con il defunto, si segue cioè il cosiddetto principio di gradualità. Ad esempio, nel caso in cui ci sia solo un figlio e un coniuge, i beni verranno divisi a metà. Quando sono invece presenti più figli al coniuge spetterà un terzo del patrimonio, mentre ai figli i restanti due terzi divisi in parti uguali.
Se il defunto non era sposato, allora l’intero patrimonio verrà diviso in parti uguali tra i figli. I fratelli del defunto e gli ascendenti (ossia i genitori, i nonni e così via), potranno quindi diventare eredi soltanto se il defunto non aveva figli.

Ne deriva che non rientrano nella categoria degli eredi legittimi le persone che fanno parte di nuclei familiari nuovi, come ad esempio i conviventi, i «genitori sociali», i «figli sociali» e così via…
Il panorama familiare contemporaneo è però molto denso e variegato e questo ha grosse implicazioni se si sta ragionando di passaggio generazionale.
La quota disponibile: uno strumento importante
Oltre alla quota legittima (vincolata per legge e riservata ai parenti entro il 6°grado) si può disporre di una quota disponibile.
La quota disponibile, definita per legge, corrisponde a quella parte di patrimonio che può essere liberamente destinata a chiunque, indipendentemente dalla presenza o meno di eredi legittimi.
Attraverso l’utilizzo di strumenti coerenti, come assicurazioni vita o testamenti, la legge ci permette di «liberare una quota della successione legittima», variabile in relazione alla numerosità degli eredi legittimi esistenti, per proteggere persone alle quali si è legati, ma che non rientrano nella parentela riconosciuta dalla legge.
“La quota disponibile è quella parte di patrimonio che può essere liberamente destinata a chiunque, indipendentemente dalla presenza o meno di eredi legittimi”
Ragionare sul proprio passaggio generazionale insieme a professionisti del mercato, ci permette di “non lasciare che sia”. In mancanza di interventi specifici, si applica automaticamente la cosiddetta «successione legittima» stabilita dallo Stato.
Pertanto, restare ancorati a superstizioni, o semplicemente procrastinare la decisione, può risultare molto dannoso.
Le imposte di successione: tante o poche? Dipende…
Quando si entra in possesso di un’eredità occorre pagare un’imposta di successione. Questa imposta si applica al valore della quota o dei beni, eccedente una franchigia, definita in base al rapporto di parentela esistente. Anche qui, alla base della tutela c’è la famiglia formalizzata.
Se, ad esempio, l’erede è il coniuge, il figlio o il genitore, l’imposta si applica solo sulla quota che supera la franchigia di 1 milione di euro. Se invece ad entrare in possesso dell’eredità è un fratello o una sorella, la franchigia scende a 100.000 euro. Se infine l’eredità è destinata ad un soggetto portatore di handicap grave, allora la franchigia sale a 1.500.000 euro. Altri eredi, con grado di parentela più distante, non beneficiano di alcuna franchigia.
Oltre alla franchigia, occorre poi considerare l’aliquota. L’importo da pagare si ottiene infatti applicando alla base imponibile, ridotta dell’eventuale franchigia, un’aliquota che varia a seconda del rapporto di parentela esistente: si va dal 4% se gli eredi sono il coniuge, i figli o i genitori, all’ 8% se chi entra in possesso dell’eredità sono soggetti oltre il 4° grado di parentela.

Non tutti i beni che si ricevono in eredità sono sottoposti a imposta di successione. A titolo di esempio, sono tassati, il denaro, i gioielli, gli immobili, i beni mobili e i titoli al portatore, le partecipazioni in società, etc. Sono invece esenti da imposta di successione, il TFR, le polizze stipulate dal defunto, i crediti verso lo Stato, gli enti pubblici territoriali e gli enti pubblici che gestiscono forme obbligatorie di previdenza e di assistenza sociale, i titoli del debito pubblico, etc.
In sintesi, in Italia le imposte di successione sono particolarmente generose se rivolte a dei parenti stretti e molto meno se ad entrare in possesso di un bene è, ad esempio, un convivente. È essenziale farsi supportare nell’individuazione degli strumenti adatti a liberare la quota disponibile e a gestire al meglio la fiscalità.
E se si eredita un immobile?
La proprietà immobiliare costituisce la maggior parte della ricchezza delle famiglie italiane. Siamo un popolo di «proprietari di casa» e questa consuetudine fa sì che gran parte delle eredità comprendano case o appartamenti.
Qualora nel trasferimento di beni siano presenti degli immobili, sarà necessario tenere in considerazione due ulteriori imposte: l’imposta ipotecaria (corrispondente al 2% del valore catastale dell’immobile) e l’imposta catastale (pari all’1% del valore dell’immobile).
Se l’immobile ereditato rappresenta una «prima casa», sono previste delle agevolazioni. In questo caso le imposte sono dovute in misura minima e fissa, pari a 200 euro di imposta catastale e 200 euro di imposta ipotecaria.

Conclusioni
Anche se può risultare difficile, l’invito è quello di cominciare a ragionare sul proprio passaggio generazionale e domandarsi se sia più vantaggioso rinviare il ragionamento sulla trasmissione del proprio patrimonio o se invece sia meglio pianificare la propria successione già in vita, assicurandosi che parte dei propri beni vadano a favore delle persone a cui vogliamo bene, siano essi familiari o altri affetti. Solo così sapremo essere dei buoni antenati.
da g.zucchetti | 12 Mag, 2025 | Educazione Finanziaria
Comprare una casa senza avere disponibilità totale delle risorse, comprare un’auto a rate, distribuire l’acquisto di uno smartphone in tre comodi pagamenti o posticipare l’esborso economico di un viaggio anche dopo averlo fatto: queste soluzioni un tempo non sarebbero state possibili. Oggi grazie a diverse soluzioni di indebitamento possiamo fare molte di queste cose. Tutto questo però ha un costo, più o meno visibile, che si chiama tasso di interesse. Come si valuta e quali impatti ha una sua variazione?
Cosa è il tasso di interesse?
Il vero costo di un prestito o di un mutuo è determinato da un elemento: il tasso d’interesse.
Conoscerlo è essenziale per capire quanto costa, davvero, possedere o usare subito ciò che potremmo ottenere in futuro risparmiando.
Ad esempio, un mutuo da 100.000 euro a 10 anni con un tasso di interesse al 3%, richiede un esborso finale totale di circa 117.000 euro: il 17% in più.
I tassi sono espressi come percentuale del credito ottenuto e del deposito effettuato, con riferimento a un determinato periodo, normalmente un anno. Il tasso di interesse per il creditore, cioè chi presta il denaro, è il guadagno, mentre per il debitore, cioè chi chiede il denaro in prestito, rappresenta un costo.
Quando si contrae un mutuo è semplice capire che stiamo chiedendo in prestito del denaro, ma quando paghiamo a rate un elettrodomestico risulta un po’ più difficile e riteniamo che l’operazione non ci costi nulla, invece, va compreso e ponderato il costo dell’operazione.
Le decisioni delle Banche Centrali influenzano direttamente i tassi di interesse. Se le politiche monetarie favoriscono il credito, i prestiti diventano più accessibili. Tuttavia, in caso di inflazione elevata, i tassi generalmente vengono aumentati dalle Banche Centrali per stabilizzare l’economia.
“Conoscere il tasso di interesse è essenziale per capire quanto costa davvero ciò che potremmo ottenere in futuro, risparmiando.”
Quale tasso valutare quando si chiede un prestito?
Le offerte commerciali spesso propongono “tasso zero” o condizioni agevolate. In realtà, dietro a questi slogan si celano spese accessorie che possono rendere il costo effettivo più alto. In altri casi, il tasso iniziale è promozionale e aumenta dopo i primi mesi. Solo leggendo attentamente le condizioni contrattuali si può capire la vera entità del costo.
Tasso Annuo Nominale (TAN)
È il tasso d’interesse “puro”, espresso su base annua, che viene applicato al capitale prestato. Non tiene conto delle spese accessorie. È spesso il tasso messo in evidenza nelle pubblicità, perché è più basso del TAEG e quindi più “accattivante”.
Tasso annuo effettivo globale (TAEG)
Per il debitore è il costo totale di un’operazione di finanziamento che tiene conto non solo degli interessi sul prestito, ma anche di tutti gli oneri relativi al contratto di credito. Il TAEG è un indicatore sintetico di costo molto importante ai fini della trasparenza delle condizioni contrattuali applicate dagli istituti di credito, in quanto permette al debitore una facile comparazione tra i differenti servizi di finanziamento offerti. Questo è il tasso da cercare nella documentazione e quindi confrontare per capire il costo totale dell’operazione.
Infine, ogni regione ha un valore medio di tasso diverso che dipende dalla rischiosità della clientela e dai costi che ogni istituto attribuisce all’operazione.

Riconoscere il tasso effettivo dell’operazione (TAEG) di prestito (mutuo o finanziamento) è il primo passo per poter confrontare diverse alternative e scegliere in maniera avveduta.
Tasso usura: un limite di legge da conoscere
Il tasso usura è l’interesse oltre il limite legale. La legge fissa un tasso soglia, oltre il quale un prestito è considerato usurario. Questo limite si calcola sul tasso medio applicato dalle banche, rilevato trimestralmente dalla Banca d’Italia.
Un interesse superiore a tale soglia, aumentato di un quarto più un margine massimo del 4%, può configurare il reato di usura. Le vittime possono agire legalmente, ma devono dimostrare l’effettiva applicazione del tasso illecito. Per esempio al 31 marzo 2025, Banca d’Italia ha rilevato che il tasso fisso erogato mediamente dalle banche era pari a 3.39%. Quindi la soglia di usura è stata fissata pari a 8.2375%. Il tasso variabile erogato mediamente dalle banche è invece stato pari a 5.21% e quindi la relativa soglia di usura è stata fissata 10.5125% (Fonte: Banca d’Italia – tassi di interesse).
“Le vittime d’un tasso di usura possono agire legalmente, ma devono dimostrare l’effettiva applicazione del tasso illecito”
Conoscere il limite oltre cui un tasso diventa illegale non è solo una nozione tecnica: è uno strumento di autodifesa, un confine che separa il diritto dal sopruso e rende più consapevoli le nostre scelte finanziarie.
Tasso fisso o tasso variabile? L’eterno dilemma
Quando si accende un mutuo, una delle scelte più importanti da compiere riguarda il tipo di tasso di interesse che il mutuo avrà: fisso o variabile. Questa decisione ha un impatto diretto sulla rata mensile, sulla stabilità dei pagamenti e sul costo totale del finanziamento. Capire bene cosa cambia tra le due opzioni è fondamentale per fare una scelta consapevole.
Il tasso fisso garantisce che la rata del mutuo resti sempre uguale per tutta la durata del prestito. Non importa cosa accade ai mercati o alle politiche della Banca Centrale: la cifra da pagare ogni mese non cambia. È la scelta ideale per chi desidera sicurezza e non avere sorprese. Il rovescio della medaglia è che, di solito, il tasso fisso è più alto di quello variabile al momento della stipula.
Il tasso variabile, invece, segue l’andamento dei tassi di mercato (come l’Euribor). Questo significa che la rata può cambiare nel tempo: può scendere, rendendo il mutuo più economico, ma può anche salire, mettendo a rischio la sostenibilità dell’impegno. È una soluzione adatta a chi ha una buona capacità di spesa e vuole scommettere su un andamento stabile o calante dei tassi.
Facciamo un esempio concreto. Immaginiamo un mutuo da 150.000 euro da restituire in 20 anni con tasso fisso al 3,2%, la rata sarà di circa 849 euro al mese per tutta la durata. Il totale restituito sarà circa 203.760 euro.
Con tasso variabile all’1,9% iniziale, la rata iniziale sarà di circa 754 euro. Ma se nel tempo il tasso salisse fino al 4%, la rata potrebbe arrivare a 908 euro, aumentando l’esborso totale a oltre 217.000 euro. Come si vede, il tasso variabile può essere più conveniente all’inizio, ma porta con sé un rischio.

La scelta dipende dal profilo personale: chi preferisce la tranquillità, sceglie il fisso. Chi ha margini di bilancio più ampi e segue l’evoluzione dei mercati, potrebbe valutare il variabile. In ogni caso, è una decisione da prendere valutando in particolar modo le proprie possibilità future.
Da cosa dipendono i tassi del mutuo?
Il tasso di un mutuo dipende da diversi fattori, quelli principali sono:
– mercato: i tassi BCE sono il riferimento principale;
– durata: prestiti più lunghi implicano più rischio per la banca;
– profilo del cliente: stabilità economica e storia creditizia influiscono sulle condizioni applicate;
– finalità: i mutui per la casa hanno condizioni più favorevoli rispetto ai prestiti per consumi, grazie alla presenza di un’ipoteca sull’immobile;
– spread: la percentuale di guadagno di chi concede il credito, da aggiungere al tasso
Ma quanto pesa sul conto familiare, la variazione di un punto percentuale? Un mutuo da 100.000 euro a 10 anni con tasso al 3% ha una rata di 977 euro. Con un tasso al 4%, la rata diventa 1.027 euro: oltre 6.000 euro in più da pagare durante tutta la vita del mutuo.

Comprendere quanto incide anche una piccola variazione di tasso è fondamentale per scegliere consapevolmente se è meglio optare per un mutuo a tasso fisso o a tasso variabile.
Conclusioni
Ogni prestito ha un costo, più o meno facilmente riconoscibile, che può incidere in modo significativo sul bilancio familiare.
Saper distinguere tra TAN e TAEG, conoscere il limite del tasso usura e valutare la differenza tra tasso fisso e variabile significa proteggersi da scelte sbagliate o troppo rischiose. Nessuna decisione finanziaria dovrebbe essere presa alla leggera, tanto meno quando si tratta di indebitarsi. Conoscere i tassi è il primo passo per scegliere, non subire e costruire un rapporto sano e sostenibile con il credito.
da g.zucchetti | 6 Mag, 2025 | Educazione Finanziaria
La pensione è un pensiero strano, che da un lato ci attrae e dall’altro ci spaventa. Il timore, generale, è quello di dover fare attenzione alle piccole e grandi spese, perché i soldi non saranno sufficienti.
In questo quadro, dovremmo almeno fare i conti con le nostre pensioni pubbliche, ma anche questo ci è difficile, perché ci è stato spiegato che le logiche sono complicate, i conti non tornano e così via.
In realtà, i conti tornano ma è altrettanto vero che le pensioni pubbliche sono poco adeguate alla qualità della vita che vorremmo. La previdenza funziona in maniera semplice e la pensione di ognuno di noi dipenderà da quanti contributi versiamo e verseremo. Se lavoriamo per tanto tempo o con redditi alti avremo pensioni sostanziose, diversamente accumuleremo pochi contributi previdenziali.
Il problema è che, seppur versiamo “tanto”, la durata dei versamenti è di poco inferiore al tempo di vita, lunghissimo, che passeremo in pensione. In teoria, dovremmo versare ancor di più ma questo abbasserebbe redditi già poco eclatanti e quindi?
Ministoria
La pensione è un concetto abbastanza recente, della fine del XIX secolo. Nasce a capitalizzazione: ognuno versa per sé e per il suo futuro. Le riserve future dei pensionati vennero tuttavia distrutte dall’inflazione della seconda guerra mondiale e 1000 lire, in nove anni, si ridussero, in termini di potere d’acquisto, a 22. In un Paese che esce malconcio dalla guerra, ma che è pieno di giovani e povero di pensionati, è naturale pensare che si possa risolvere il problema passando da “ognuno versa per sé” a un patto generazionale nel quale tanti giovani versano soldi per pochi anziani.
Ora le cose sono cambiate, abbiamo pochi giovani e molti anziani e non c’è riserva ma ripartizione. I soldi di chi lavora pagano, quasi “in diretta” le pensioni. I calcoli, tuttavia, rimangono “personali” (anche se come abbiamo visto la cassa non c’è). Di conseguenza, ciascuno avrà indietro una pensione corretta rispetto a quanto ha versato ma… la avremo davvero tutti? E quando? E come capire se sarà sufficiente?
“Siamo passati da ‘ognuno versa per sé’ a un patto generazionale nel quale tanti giovani versano soldi per pochi anziani”
Per chi, perchè
Il fatto che ognuno avrà una pensione che deriva dai versamenti ci dice che la pensione è un beneficio per chi ha lavorato e non per tutti. Chi non ha lavorato, o non a sufficienza, non ha pertanto diritto alla pensione ma solo, in caso di necessità, ad assegni di inclusione o redditi assistenziali.
La buona notizia, tuttavia, è che ogni lavoro prevede il versamento di contributi, e quindi ciascun lavoratore matura contributi previdenziali. La gran parte di questi contributi confluisce in INPS ma ci sono diverse casse professionali, relative a categorie diverse dal lavoro dipendente, artigianale o commerciante. Ogni categoria che si è dotata di una propria cassa previdenziale ha regole proprie, ma oramai tendenzialmente tutti i sistemi stanno confluendo verso modelli simili: ciascuno versa contributi, ed al termine del lavoro questi si trasformeranno in pensioni in maniera equa.
Di seguito faremo riferimento al mondo INPS. La possibilità di andare in pensione di solito è legata all’età, ma anche al numero di anni di versamenti. Tipicamente, ciascuno esamina la propria situazione per capire se si può andare in pensione di vecchiaia o in pensione anticipata. La pensione di vecchiaia si raggiunge ad una data età purché si sia versato per un certo numero di anni. La pensione anticipata, diversamente, non considera le età ma solo i versamenti, ancora differenziati per genere.
Questo è il criterio generale, che tuttavia varia in funzione dell’inizio del lavoro. La data che distingue i requisiti è il 1 gennaio 1996. Chi già lavorava avrà alcune possibilità, chi ha iniziato a lavorare dopo quella data ha un sistema un po’ diverso.

Requisiti per meno giovani
Chi ha iniziato a lavorare (più precisamente, a versare) prima della fine del 1995 può andare in pensione di vecchiaia a 67 anni con 20 anni di contribuzione o in pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi se uomo e 41 anni e 10 mesi se donna.
Entrambi i requisiti sono mobili, nel senso che vengono aggiornati ogni due anni in funzione dell’allungamento della speranza di vita. In pratica, se la vita media si allunga di 3 mesi, l’età della pensione si sposterà in avanti di 3 mesi e così via. Se il numero di anni di versamenti non è sufficiente per conseguire il diritto, ci sono due possibilità: riscattare gli anni di laurea se la si è conseguita o proseguire i versamenti anche dopo la fine del lavoro, in maniera volontaria.

Requisiti per più giovani
Chi ha iniziato a lavorare (più precisamente, a versare) dopo la fine del 1995 può andare in pensione di vecchiaia a 67 anni con 20 anni di contribuzione o in pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi di contribuzione se uomo e 41 anni e 10 mesi di contribuzione se donna. C’è però una ulteriore possibilità, che consiste nell’andare in pensione a 64 anni a condizione che si sia versato per almeno 25 anni e il calcolo della pensione sia almeno pari a 3 volte l’assegno sociale, ossia a 1.616 euro al mese.
Per agevolare questa possibilità, il calcolo della pensione comprende anche le pensioni complementari, quelle che potremmo avere se sottoscriviamo un fondo pensione. Anche in questo caso i requisiti sono mobili, nel senso che vengono aggiornati ogni due anni in funzione dell’allungamento della speranza di vita, ed anche qui se il numero di anni di versamenti non è sufficiente si può riscattare la laurea o proseguire i versamenti. C’è tuttavia una terza possibilità, ed è quella di maturare un importo complessivo tra previdenza pubblica e complementare che consenta di smettere di lavorare prima.

Se non si raggiungono i requisiti pensionistici “standard” bisogna aspettare 71 anni. In quel caso gli anni di contribuzione necessari sono solamente 5.
Le uscite di sicurezza
È strano dirlo, ma in Italia oltre ai sistemi di regole ci sono, spesso, possibilità temporanee di anticipare le età della pensione. Le più note sono Opzione Donna e Quota 103. Queste possibilità consentono di andare in pensione prima del dovuto, ma non in maniera “gratuita”. Ogni possibilità di andare in pensione “prima del dovuto” prevede, infatti, penalizzazioni negli importi o sistemi di calcolo che, a conti fatti, risultano poco convenienti, a meno che l’anticipo non sia così essenziale o necessario da pagarne un prezzo. Ognuno, naturalmente, deve valutare soggettivamente il costo di rimanere al lavoro o disporre di maggiore tempo per sé e le proprie passioni. Prima di fare scelte, tuttavia, sarebbe bene simulare con precisione la diminuzione dell’assegno pensionistico.
“Ognuno, naturalmente, deve valutare soggettivamente il costo di rimanere al lavoro o disporre di maggiore tempo per sé e le proprie passioni”
Qualche calcolo
Inutile negarlo: siamo generalmente affaticati, e l’idea di lasciare il lavoro e dedicarci alle persone che amiamo ed alle nostre passioni spesso è più attrattiva di quella di continuare a lavorare. Tuttavia, il numero di anni che passeremo in pensione è così elevato che prima di smettere di lavorare è necessario fare qualche calcolo per capire se quello che si avrà ci consentirà la vita che desideriamo.
I calcoli sull’importo pensionistico, nella realtà, si possono fare in maniera esatta solo alla fine del lavoro. Prima si possono, tuttavia, fare ipotesi accurate per indirizzare le proprie traiettorie verso la stabilità prima che sia troppo tardi. In tutti i casi, le logiche di calcolo sono molto semplici: i nostri contributi, obbligatori, che nei fatti vengono usati per pagare i pensionati di oggi, contabilmente generano un capitale, che si chiama montante contributivo. Per dare ad ognuno di noi una pensione equa, INPS divide questo capitale per il numero di anni medi che passeremo in pensione e ottiene una rendita, che ci verrà pagata mese per mese finché vivremo.
La tabella mostra l’esito di questa operazione. Tecnicamente, INPS pubblica divisori che rappresentano proprio il numero di anni nel quale ci si attende di pagare l’assegno a chi va in pensione alle età indicate. Ad esempio: il coefficiente 5,250% riferito ad un 65enne, significa che INPS stima di pagare la sua pensione per 19,04 anni. Dividendo il capitale maturato dai contributi per questa cifra, il nostro 65enne avrà indietro una pensione equa per lui e che non mette in crisi i conti del sistema.
Qual è tuttavia il risultato concreto di tutti questi meccanismi, regole, evidenze? Vale la pena di tradurre le regole in numeri, e di farci una idea di quel che potrà accaderci. Le tabelle che seguono indicano quanta pensione possiamo attenderci in percentuale sull’ultimo reddito.

Che fare?
La prima indicazione che ci sentiamo di dare è di non considerare i versamenti pubblici come un obbligo sgradito, ma come benzina per costruire un domani che sarà insufficiente ma comunque c’è.
È in ogni caso evidente che i calcoli saranno equi in termini aritmetici ma non consentono una vita qualitativamente prospera e serena. Quindi, e senza indugio, è bene dedicare parte del proprio risparmio alla costruzione di un futuro pensionistico più stabile, utilizzando le forme e gli strumenti messi a disposizione dal mercato finanziario e previdenziale. Inoltre:
- Interessatevi della vostra situazione, visitate i siti della vostra cassa previdenziale pubblica, scaricate i vostri estratti conto contributivi, simulate tempi ed importi
- Valutate l’adeguatezza degli importi alla vostra situazione attuale ed a quella desiderata, valutando, conti alla mano, che vita potreste fare con quelle somme mensili e ragionando sulla propria autonomia e indipendenza finanziaria. Non è infatti né giusto né rassicurante dover dipendere per tanti anni dai supporti del coniuge, dei figli, delle assistenze pubbliche
- Se l’esito delle valutazioni non è rassicurante, pensate, da subito, alle strategie più adeguate per fare fronte ad una longevità che non può essere subita, ma va preparata con cura
Le uscite di sicurezza
È strano dirlo, ma in Italia oltre ai sistemi di regole ci sono, spesso, possibilità temporanee di anticipare le età della pensione. Le più note sono Opzione Donna e Quota 103. Queste possibilità consentono di andare in pensione prima del dovuto, ma non in maniera “gratuita”. Ogni possibilità di andare in pensione “prima del dovuto” prevede, infatti, penalizzazioni negli importi o sistemi di calcolo che, a conti fatti, risultano poco convenienti, a meno che l’anticipo non sia così essenziale o necessario da pagarne un prezzo. Ognuno, naturalmente, deve valutare soggettivamente il costo di rimanere al lavoro o disporre di maggiore tempo per sé e le proprie passioni. Prima di fare scelte, tuttavia, sarebbe bene simulare con precisione la diminuzione dell’assegno pensionistico.
“È bene dedicare parte del proprio risparmio alla costruzione di un futuro pensionistico più stabile”
Conclusioni
Le prestazioni offerte dal sistema pensionistico italiano sono eque, ma potrebbero non bastare o potremmo non averne diritto. Per questo andrebbero integrate con strumenti previdenziali adeguati e capaci di metterci al sicuro di fronte a un nuovo grande rischio della vita: quello di vivere più a lungo dei propri soldi.
da g.zucchetti | 28 Apr, 2025 | Educazione Finanziaria
Grazie ai sistemi di welfare, gli Stati moderni si occupano del benessere dei cittadini. Il welfare italiano è diviso in due parti: assistenza e previdenza. L’assistenza protegge chi non ha i mezzi per vivere bene a causa di infortunio, malattia, invalidità o disoccupazione involontaria. La previdenza funziona diversamente: la pensione di ognuno di noi dipenderà da quanti contributi versiamo e verseremo. Se lavoriamo per tanto tempo o con redditi alti avremo pensioni sostanziose, diversamente accumuleremo pochi contributi previdenziali.
Lo stato ci aiuta, ma servono i requisiti
La pensione di inabilità e la pensione ai superstiti vengono in aiuto dei cittadini in caso di gravi evenienze, come un’improvvisa disabilità o il decesso prematuro; la pensione di vecchiaia (o anticipata), invece, ci supporta nell’affrontare la terza età. Queste pensioni non sono un diritto di tutti, servono infatti i requisiti. Per ottenere una pensione in Italia è necessario aver lavorato e versato contributi con regolarità per un determinato numero di anni.
Per ricevere l’assegno pensionistico di inabilità, ad esempio, occorre non essere più in grado di lavorare in maniera permanente ed aver versato contributi per almeno 5 anni di cui 3 negli ultimi 5. Per dar diritto ai familiari di ottenere la pensione ai superstiti, invece, il lavoratore deve aver contribuito per almeno 15 anni o per almeno 5 anni di cui 3 negli ultimi 5.
“Per ottenere una pensione in Italia è necessario aver lavorato e versato contributi con regolarità.”
Informarsi sulla propria posizione contributiva è un diritto, ma anche un dovere.
Diritti sì o diritti no?
Nell’idealità ciascuno dovrebbe poter scegliere a chi lasciare i propri soldi e i propri beni quando non ci sarà più. Nella realtà le cose non vanno così.
Per aver diritto alla pensione ai superstiti, ad esempio, occorre rientrare in precise categorie di seguito sintetizzate:
– il coniuge o l’unito civilmente, sapendo che se il coniuge passa a nuove nozze perde il diritto
– il coniuge separato
– il coniuge divorziato a condizione che sia titolare dell’assegno divorzile, che non sia passato a nuove nozze e che la data di inizio del rapporto assicurativo del defunto sia anteriore alla data della sentenza che ha pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio.
– I figli ed equiparati, tra questi:
i figli minorenni; i figli inabili al lavoro e a carico del genitore indipendentemente dall’età; i figli maggiorenni studenti, che non prestino attività lavorativa, che frequentano scuole o corsi di formazione professionale, nei limiti del 21° anno di età; i figli maggiorenni studenti, a carico del genitore al momento del decesso, che non prestino attività lavorativa, che frequentano l’università, non oltre il 26 anno di età.
In assenza del coniuge e dei figli i beneficiari potranno essere destinatari i genitori che abbiano compiuto il 65° anno di età, non titolari di pensione diretta o indiretta e a carico del lavoratore deceduto. In assenza del coniuge, dei figli o del genitore, allora avranno diritto alla pensione i fratelli celibi e sorelle nubili inabili al lavoro, non titolari di pensione diretta o indiretta, a carico del lavoratore deceduto.

Il welfare pubblico italiano tutela principalmente le famiglie formalizzate. Se conviviamo o non facciamo parte di famiglie formalizzate sarà necessario alzare il livello della nostra protezione.
Pensione pubblica di inabilità: quanto e come
I nostri contributi nei fatti vengono usati per pagare i pensionati di oggi ma nella contabilità creeranno un capitale finale, che si chiama montante contributivo.
Nella pensione di inabilità se l’età di invalidità è minore di 60 anni, il montante contributivo si ottiene sommando il maturato contributivo e una somma di contributi figurativi contabilizzati dall’assistenza fino ai 60 anni. Il montante contributivo viene poi moltiplicato per un coefficiente basato sulla speranza di vita a 60 anni di età se l’invalidità permanente accade a 60 anni o prima. Se invece avviene dopo i 60 anni allora non ci sarà componente assistenziale ed il calcolo deriverà dalla conversione dei propri contributi versati e capitalizzati con un coefficiente che stima la speranza di vita a quell’età.
I calcoli per stimare la pensione di inabilità non sono complicati e si possono effettuare utilizzando le informazioni presenti nel nostro estratto contributivo INPS e utilizzando i coefficienti di trasformazione presenti sul sito dell’Istituto.
“Il consiglio è però quello di farsi supportare da professionisti che ci possono aiutare a leggere ed interpretare meglio queste informazioni.”
Pensione di inabilità: alcune stime utili
Ogni situazione è differente, e le pensioni di inabilità possono variare enormemente in base alle caratteristiche di ciascuno di noi. Per poterci fare un’idea dell’apporto della previdenza pubblica, ci possiamo però far aiutare da alcune stime.
Considerando una persona con un reddito attuale di 30.000 euro, le tabelle ci indicano i tassi di sostituzione, ossia il rapporto tra pensione di inabilità e il reddito da lavoro.

Come mostrano le percentuali indicate, nel caso simulato, la pensione pubblica è sicuramente un supporto importante ma non sufficiente a recuperare interamente i redditi che verrebbero a mancare in caso di un’improvvisa invalidità permanente, ai quali andrebbero sommate le spese sanitarie e di assistenza.
Pensione pubblica ai superstiti: quanto e come
La pensione destinata ai superstiti di un lavoratore prevede un calcolo simile a quello per la pensione di inabilità. In questo caso non esiste però una componente contributiva assistenziale: l’intera pensione è finanziata tramite i propri contributi.
In pratica, i contributi versati sino al momento dell’evento rimangono tali e quel che si è maturato viene moltiplicato per il coefficiente relativo alla propria età o, se l’età al decesso è inferiore ai 57 anni, per il coefficiente relativo a quella età. Per questo, gli importi risultano decisamente inferiori rispetto a quelli delle pensioni di inabilità. Il calcolo risente inoltre della cosiddetta “prova dei mezzi”, una valutazione della situazione economica di un individuo o di un nucleo familiare, utilizzata per determinare l’accesso a determinate prestazioni o benefici sociali. In pratica, serve a stabilire se una persona ha diritto a ricevere un aiuto economico o un servizio, basandosi sul suo reddito e sul suo patrimonio.
La pensione superstiti viene quindi ridotta se i destinatari hanno una situazione reddituale giudicata sufficiente, ossia non meritevole di totale assistenza pubblica.
Pensione ai superstiti: alcune stime utili
Per poter capire meglio quanta pensione pubblica ai superstiti potremmo aspettarci, osserviamo alcune stime relative alla pensione indiretta di un lavoratore sposato, con un figlio, e un reddito attuale di 30.000 euro.
In funzione del tipo di famiglia (1 coniuge e 1 figlio) la prestazione sarà immediatamente ridotta del 20% (se la famiglia fosse invece composta da 1 coniuge e 2 figli non sarebbero previste riduzioni). Le stime ipotizzano poi che il reddito del coniuge sia pari a 30.000 euro: questo (per la prova dei mezzi) darà luogo ad una ulteriore riduzione della prestazione del 25%.
L’esito è quello mostrato nelle tabelle che anche in questo caso indicano il tasso di sostituzione, ossia il rapporto tra pensione indiretta garantita ai superstiti e reddito attuale del soggetto che viene a mancare.

Anche in questo caso ogni situazione è differente, e le pensioni superstiti variano in base alla contribuzione individuale. Le stime, ci mostrano però chiaramente quanto sia importante affrontare per tempo il tema della propria protezione e del benessere delle persone a cui vogliamo bene.
Che fare?
Ecco allora alcuni semplici consigli per agire e non subire grossi rischi come quelli affrontati in questo contributo.
– Il primo consiglio è quello di simulare la propria capacità di far fronte a una situazione grave ed inaspettata
– Verifichiamo poi se abbiamo diritto o meno ad una prestazione assistenziale pubblica
– Attiviamo un percorso di pianificazione che, confrontando obiettivi e risorse, ci aiuti a verificare il nostro grado di stabilità e, se insufficiente, ad aumentarlo
Conclusioni
Le prestazioni offerte dal Welfare statale sono importanti ed eque, ma potrebbero non bastare o potremmo non averne diritto. Per questo andrebbero integrate con strumenti assicurativi adeguati e capaci di metterci al sicuro di fronte ai grandi rischi della vita.