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Rifiuti: rigenerare e riutilizzare

Rifiuti: rigenerare e riutilizzare

Il miglior modo per gestire i rifiuti è evitare che diventino tali”. Lo sostiene il centro studi Ref Ricerche, che propone un approccio davvero circolare (cioè rigenerare o riutilizzare un prodotto ancora prima che finisca del tutto il suo ciclo di vita), considerando la possibilità di un salto di qualità e di un vero e proprio cambio di paradigma.

 

Un rifiuto viene buttato in un cassonetto (apposito, si spera), trasportato fino alla discarica, poi lavorato e riconvertito. “Tutti questi passaggi si possono evitare, anticipandoli” spiegano gli studiosi di Ref, che, esaminando la “gerarchia dei rifiuti” e le opzioni preferibili vi pongono al vertice il riuso e la preparazione al riutilizzo.

 

Un approccio che crea le migliori condizioni anche per incentivare l’innovazione (contribuendo a ridurre l’uso di materie prime vergini), allungare l’utilità economica dei prodotti e dei servizi; generare occupazione e riposizionare competenze e know-how verso produzioni alternative. Per non parlare, poi dei benefici ambientali ed economici del mercato della “seconda mano”.

 

La compravendita di oggetti usati nel 2019 è stata pari a 24 miliardi di euro, di cui 10,5 attraverso l’online. Cifra, quest’ultima, che non sorprende considerando il giro d’affari di colossi del commercio di seconda mano attivi online come eBay, che è quotato al Nasdaq; ma anche di social network come Facebook. Comunque, le circa tremila imprese operative stabilmente sul mercato italiano dell’usato per conto terzi fatturano circa 850 milioni di euro l’anno, mentre il segmento che impiega più persone è quello dell’ambulantato, il quale a volte è solo un hobby ma che intanto coinvolge circa 50mila micro-attività, con una stima di 80mila addetti.

 

Oltre alla rivendita però, c’è anche il “remanufactoring, ovvero la riparazione, la rigenerazione, il rinnovamento vero e proprio del ciclo di vita di un prodotto, che non viene più buttato o rivenduto così come è, ma magari deassemblato e ricomposto: in questo caso il valore aggiunto è il risparmio di materia prima, a vantaggio anche dell’investimento su una forza lavoro specializzata. Questa è forse la sfida più interessante, perché oltre al beneficio ambientale e alla possibilità di generare nuove transazioni commerciali (a prezzo inferiore per i consumatori), c’è la creazione di occupazione, considerando che il remanufacturing è una attività a elevato tasso di manodopera, che può permettere di recuperare parte della disoccupazione originata dalla delocalizzazione produttiva e dall’automazione.

 

Non a caso, secondo gli scenari ricostruiti dallo European Remanufacturing Network (Ern) – come ricorda il Centro studi Ref Ricerche, il remanufacturing alimenta un mercato che in Europa vale circa 30 miliardi e che potrebbe crescere fino a 100 miliardi entro il 2030, cifra già raggiunta negli Usa.

L’automotive e il settore della costruzione di macchine industriali rappresentano, ciascuno, circa il 30% del mercato del remanufacturing, il resto si ripartisce per un 27% agli apparecchi elettrici ed elettronici, per un 7% alla componentistica per automezzi pesanti e fuoristrada e un 3% sia all’aerospazio che alle forniture tecnologiche in genere.

Lo stesso Ern stima che la rigenerazione consente di risparmiare tra il 60 e l’80% del valore dei prodotti nuovi, soprattutto in termini di minori costi di materie prime, energia, trasporto e distribuzione. Insomma, un’opportunità davvero difficile da non cogliere. Gli autori dello studio sostengono che “le principali leve che potrebbero favorire la diffusione della prevenzione e del riutilizzo in Italia sono tre: il nuovo Piano d’Azione per l’Economia Circolare, promosso dalla Commissione Ue; il nuovo Programma Nazionale di Prevenzione dei Rifiuti, che il ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, dovrà redigere. Più la regolazione Arera nel settore dei rifiuti urbani”.

 

Comunque, in Italia, un primo passo avanti è già stato fatto: nell’ambito di Industria 4.0, nel maggio scorso, è stato deliberato dal Mise (ministero dello Sviluppo economico) il decreto attuativo del Piano Transizione 4.0, che destina un credito di imposta del 10% alle attività oggetto di innovazione tecnologica finalizzate al raggiungimento di obiettivi di transizione ecologica.

Mercato bici da record

Mercato bici da record

Bisogna risalire alla prima metà degli anni ’90, quando l’avvento del fenomeno mountain bike contribuì in modo significativo alla diffusione della bicicletta in Italia, per leggere dati del mercato italiano delle due ruote a pedale simili a quelli registrati nel 2020. Nonostante tutte le difficoltà provocate prevalentemente dalla pandemia, infatti, l’anno scorso, nel nostro Paese sono state venduti 2,010 milioni di biciclette, il 17% in più rispetto al 2019.

 

La stima è di Confindustria Ancma (Associazione Nazionale Ciclo Motociclo Accessori), dalla quale è stato precisato che gli acquisti di bici tradizionali sono aumentati del 14%, arrivando così a 1.730.000 e quelli di eBike sono volati 280mila, facendo segnare un incremento del 44% rispetto all’anno precedente. Numeri record, dunque. Dovuti indubbiamente all’introduzione del bonus mobilità governativo, ma anche, paradossalmente, al Covid-19.

 

Secondo il presidente dell’Ancma, Paolo Magri, infatti, se è vero che il bonus governativo “ha contribuito a sostenere in modo rilevante una domanda, che comunque seguiva un trend di crescita positivo già prima dell’operatività degli incentivi”, è altrettanto vero che uno dei principali motivi del boom delle vendite si debba proprio alla pandemia che comporta la necessità di distanziamento e di mobilità sostenibile in ambito urbano e che ha generato un forte desiderio di libertà e di benessere personale, che la bicicletta assicura. Ma il successo del mercato fa i conti anche con “I risultati eccezionali del 2020 – ha aggiunto Magri – non sono certo un traguardo fine a sé stesso, ma costituiscono un punto di partenza per passare dalla logica di incentivi all’acquisto a una prospettiva concreta di incentivi all’utilizzo fatta di attenzioni e investimenti sul piano culturale, per l’infrastrutturazione ciclabile, lo sviluppo del cicloturismo e per garantire la sicurezza di chi sceglie nel quotidiano la mobilità dolce”.

 

L’elaborazione dei dati raccolti dall’Ancma permette, inoltre, di tracciare una fotografia aggiornata dello stato di salute del comparto in Italia. Quello della bicicletta è un settore costituito da circa 250 imprese, in prevalenza di piccole e medie dimensioni, riconosciute eccellenze a livello internazionale, in quanto simbolo del saper fare italiano e della storia delle due ruote a pedali sia nelle competizioni che sul mercato di consumo.

Nel 2020 anche la produzione di bici ha registrato complessivamente un segno positivo (+6% sull’anno precedente, grazie in particolare all’incremento del 29% delle eBike di 29 punti; mentre hanno subito un lieve calo le importazioni e le esportazioni delle due ruote a trazione muscolare).

 

Proprio le biciclette a pedalata assistita, comunque, si confermano un fenomeno di mercato in costante crescita. In soli cinque anni, infatti, le eBike hanno infatti quintuplicato i dati di vendita, passando da poco più di 50mila esemplari annui ai 280mila del 2020: un’impennata che ha allargato la platea di fruizione e che apre ulteriori prospettive di sviluppo per l’industria del settore e la sua filiera. A proposito della quale va aggiunto che per quanto riguarda le modalità d’acquisto, il 2020 ha confermato il negozio specializzato come punto di riferimento per i ciclisti. Ancma stima infatti che più del 70% dei due miliardi di euro di fatturato generato dell’intera rete di vendita durante l’anno sia venuto proprio dalle imprese commerciali più di prossimità.

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